Pubblicato il: 12/11/2024 alle 13:49
Colpevoli di avere praticato la “cresta” alle buste paga delle dipendenti. Dopo cinque processi il verdetto, per i due commercianti, è divenuto definitivo. Nel secondo passaggio in Cassazione, il rigetto del ricorso ha cristallizzato le due condanne. Così da inchiodare sulle loro responsabilità il settantaduenne Gaetano Abate e la moglie, la sessantottenne Laura Piscopo (difesi dagli avvocati Alfredo Danesi, Giuseppe Fussone e Michele Ambra) rispettivamente socio ed ex amministratrice unica della «Almas srl», ditta che operava nel settore abbigliamento al dettaglio e all’ingrosso. Per loro sono inappellabili le condanne a tre anni e sette mesi di carcere e novecento euro di multa ciascuno, per estorsione con l’aggravante, per l’accusa, di avere commesso il fatto con abuso di autorità.
Ma non è tutto. Sì perché in più, oltre all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e il pagamento delle spese legali, dovranno pure risarcire le parti civili, ossia la cinquantatreenne Rosa Maria Lo Cascio e le settantenni Rita Daniela Sabatino e Valeria Pennisi (assistite dagli avvocati Cristian Morgana e Dino Milazzo) dalle cui denunce ha preso le mosse l’indagine che, poi, ha trascinato in giudizio la coppia.
Quella che s’è irrevocabilmente conclusa è una vicenda giudiziaria altalenante che ha vissuto, con quest’ultima, ben cinque parentesi processuali. La prima s’è chiusa nell’aprile del 2017 con l’assoluzione di marito e moglie perché il fatto non sussiste, a fronte di una richiesta di condanna, del pm, a quattro anni ciascuno. Poi, nel primo appello, era il novembre del 2011, verdetto ribaltato con la pena a tre anni e cinque mesi a testa. Nel marzo dello scorso anno la Suprema Corte ha annullato il precedente verdetto, seppur con rinvio, disponendo un nuovo appello. Quello che s’è poi concluso, nel dicembre scorso, con la condanna dei due commercianti e imprenditori a tre anni e sette mesi di carcere
Le tre dipendenti avrebbero lavorato alla «Almas» dal 13 gennaio 2011 fino a quando, nel marzo del 2013, è arrivato il licenziamento per cessata attività. Secondo la tesi accusatoria, in quegli anni sarebbero state pagate con assegno, ma poi avrebbero dovuto restituire in contante la differenza tra quanto risultante ufficialmente in busta paga e quanto pattuito con la proprietà. Una sorta di ricatto, per l’accusa, pena il licenziamento. Prendere o lasciare. E poi, nel gran calderone, anche un rapporto di lavoro sulla carta part-time ma in realtà a tempo pieno e altri compensi accessori, come il lavoro straordinario, che non sarebbero mai stati retribuiti..