Pubblicato il: 20/04/2014 alle 08:50
Di Paola Mentuccia per Ansa
Spopola la moda della “selfie”. O forse a spopolare è la moda della parola “selfie”? Dare un’etichetta specifica a un comportamento lo rende riconoscibile facilmente da tutti: il risultato è che improvvisamente tutti fanno selfie. Ma cosa è se non l'aggiornamento dell’autoscatto. Se lo sviluppo della camera oscura risale alla prima metà dell’Ottocento, già cinquant’anni dopo, quando la tecnica ha cominciato ad essere diffusa, si cominciava a fare “selfie”: la granduchessa russa Anastasia Nikolaevna sembra essere stata la prima, agli inizi del ’900, ad avere l’idea di girare la macchina fotografica e scattare con l’obiettivo rivolto verso se stessa. Molte celebrità, dopo di lei, hanno lasciato ai posteri una testimonianza di se stessi in un momento preciso della propria vita e della propria carriera artistica. Lo ha fatto il regista Stanley Kubrik: i suoi ritratti fotografici sono celebri oltre che numerosi. Lo ha fatto Oriana Fallaci, prima donna inviata di guerra, lo hanno fatto Andy Warhol e Edvard Munch. Lo hanno fatto i giovani Beatles negli anni ’60 e forse John Lennon aveva ben chiaro in mente che quell’autoscatto sul palco, di spalle alla platea dello Shea Stadium, sarebbe diventato un reperto della storia mondiale della musica. Eppure, a ben guardare, l’autoscatto e la selfie non sono la stessa cosa: l’abitudine quotidiana di riprodurre la propria rappresentazione fotografica, ormai diventata trend, è radicalmente nuova rispetto al passato. Oggi la selfie o il selfie (il maschile sta per autoscatto, il femminile per fotografia) realizza la profezia di Andy Warhol secondo cui “In futuro ognuno avrà i suoi 15 minuti di celebrità”: condividere la foto di se stessi significa salire su un gigantesco ottovolante per un tempo limitato e godere di quei momenti di celebrità che, pur brevi, nel flusso imponente della comunicazione servono a fissare un tassello nella costruzione della propria immagine esterna e, probabilmente, a dare una spinta alla propria autostima.
La facilità del mezzo, uno smartphone sempre a portata di mano, la memoria digitale che può essere modificata in ogni istante, rendono l’azione priva di una certa consapevolezza: la foto si fa, si cancella, si ripete, si condivide sui social e poi si dimentica. Non era così un secolo fa. Chi scattava doveva avere a disposizione una macchina fotografica (allora non proprio a portata di mano), uno specchio o un cavalletto. Soprattutto, doveva scegliere di farlo e una scelta implica una riflessione, un intento: se gli scatti di artisti come Francesca Woodman sono l’espressione di una ricerca interiore attraverso l’esteriore, quelli di Warhol o di Kubrik sembrano voler essere una propria memoria, una personale, unica definizione di sé. A cambiare è anche il destinatario dell’autoscatto. La selfie di una volta, essendo frutto di una decisione determinata, non fissava solo l’immagine: in quella fotografia – scattata, poi sviluppata e divenuta palpabile con mano – venivano impresse nella memoria anche le sensazioni, i pensieri, le condizioni di quel preciso istante della vita. Era un’azione, quindi, rivolta a se stessi prima che agli altri. Così non è per la selfie delle moderne webcam: l’azione è veloce, immediata e lo scopo è, il più delle volte, puro narcisismo o semplice divertimento. Su Instagram, l’hashtag “selfie” è utilizzato da quasi dieci milioni di utenti. Tra un secolo qualcuno vedrà queste foto? Difficile. Il futuro è nei prossimi quindici minuti.