Gaspare Spatuzza, le cui rivelazioni hanno consentito di istruire un nuovo processo sulla strage di Via d'Amelio accertando depistaggi sull'inchiesta relativa all'uccisione di Paolo Borsellino, è un uomo in perenne conflitto tra percorso di collaborazione con la giustizia, conversione alla fede cristiana e paura di rivelare qualcosa che possa mettere in pericolo i propri familiari. E' questo il ritratto che emerge dal nuovo libro di Alessandra Dino, “A colloquio con Gaspare Spatuzza. Un racconto di vita, una storia di stragi” (Il Mulino, 312 pp, 20 euro) frutto di nove incontri tra la sociologa palermitana e l'ex boss di Brancaccio, tra la fine del 2012 e l'ottobre 2013 nel carcere in cui era detenuto.Il libro sarà presentato domani, 4 ottobre, alle 18.00 alla Feltrinelli di Palermo dove l’autrice dialogherà con Attilio Bolzoni.
“Indefinitezza, sovrapposizioni, verità incomplete, silenzi e non detti – scrive l'autrice – costituiscono il tratto caratteristico della storia di Gaspare Spatuzza; sempre sospesa tra ammissioni e rapidi dietro front, tra inaspettate aperture e drastiche chiusure; sempre condensata in piccoli frammenti che alludono a un intero mai esplicitato e sul quale pesa l'enigma di una decodifica aperta a plurime possibilità”. In Cosa nostra sei obbligato a mentire ogni giorno della tua vita e questo non è vivere, ribadisce più volte Spatuzza. Ma intanto ci ha vissuto dentro per più di trent'anni, assaporando con orgoglio la sua appartenenza; non esitando a mentire per attirare all'interno delle sue trappole mortali le vittime designate, ingannate e tradite proprio nella loro fiducia. Il tutto con naturalezza e senza la minima remora, lasciandosi guidare dalla logica della fedeltà all'organizzazione e dalla dedizione ai suoi capi. Da un aneddoto emerge la naturalezza atroce con la quale perpetrava i suoi delitti: un collaboratore di giustizia ricorda un episodio in cui Spatuzza con una mano mescolava con un bastone di legno i resti sciolti nell'acido di un giovane ladro appena ucciso e con l'altra mangiava un panino acquistato con i soldi trovati in tasca alla vittima.
Spatuzza ripercorre il suo cammino all'interno dell'organizzazione mafiosa da quando, poco più che bambino, cominciò a frequentare la casa dei fratelli Graviano dove con il cugino Rosario, già all'interno del mondo di Cosa Nostra, andò a lavorare come imbianchino. I Graviano mettono sotto la “propria ala” il giovane Spatuzza affidandogli il compito di “attirare con l'inganno le vittime predestinate” e puntando sulla sua voglia di vendetta verso la famiglia dei Contorno responsabile della morte del fratello Salvatore, coinvolto nel sequestro della giovane Graziella Mandalà nell'estate del 1976 e punito con la morte da un commando di uomini d'onore scesi in campo per “ristabilire l'ordine”. Ma la “punciuta”, l'affiliazione formale a Cosa Nostra, arriva solo nel 1995 quando, dopo l'arresto dei fratelli Graviano, è lo stesso Spatuzza a prendere in mano il mandamento di Brancaccio, anche se la gestione economica resta in mano a Pietro Tagliavia, altro uomo di fiducia dei Graviano. Dopo l'arresto, nel 1997, Spatuzza si avvicina lentamente alla fede. Ma è solo nel 1999, dopo un lungo processo interiore di lacerazione e presa di coscienza dei gravi crimini commessi, che comincia ad avvicinarsi alla lettura della Bibbia, regalatagli da un sacerdote in occasione della messa di Natale nel carcere di Tolmezzo. Ad accompagnare il boss nel suo cammino di conversione sono tre sacerdoti: il cappellano del carcere di Ascoli Piceno, padre Pietro Capoccia, che lo iscrive a un corso di teologia, don Massimiliano De Simone, cappellano del carcere de L'Aquila e il vescovo dell'arcidiocesi aquilana, monsignor Giuseppe Molinari.