Pubblicato il: 12/05/2020 alle 16:33
E' ritornata a Caltanissetta solo una volta per i funerali del padre nel febbraio del 1946, Giuseppina Giovanna Panzica, nissena d'origine e comasca d'adozione, che nel 2018 è stata insignita dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, della medaglia d'oro al merito civile, dopo averne ricevuto un'altra a Como.
A raccontarcelo nel corso di una lunga intervista è la figlia, Rosaria Luca, che il prossimo 12 maggio compirà 88 anni.
“Noi eravamo 4 figli, tre maschi e una femmina – comincia a narrare la signora Rosaria, che oltre ad essere una persona estremamente disponibile e piacevole, conserva una memoria straordinaria – di cui soltanto il primo, Ignazio, è nato a Caltanissetta, nel 1929, in via piazza Armerina n°6, dove abitavano anche i nonni e gli zii e zie materne. Gli altri due miei fratelli ed io siamo nati invece a Ponte Chiasso, una frazione di Como, considerata “la porta” d'Italia”.
“Nonostante la condizione di relativo benessere in cui vivevano i miei genitori – continua la figlia della Panzica – mio padre, Salvatore Luca, prima Guardia di Finanza e poi calzolaio, decise di emigrare a Legnano. Per primo partì lui e dopo qualche tempo lo raggiunse mia madre, che affrontò negli anni trenta un lungo viaggio in treno per Milano con un bimbo di pochi mesi”.
“Mia madre – confessa la signora Rosaria – non è mai stata felice a Legnano; non ha mai lavorato e le condizioni economiche in cui versavano non erano delle più floride. Mio padre a Nord aveva ripreso il lavoro di calzolaio, ma non era per nulla redditizio”.
“Per un caso del tutto fortuito – continua il suo racconto la figlia della Panzica – durante una passeggiata in bicicletta mio padre arrivò a Ponte Chiasso e ne rimase a tal punto colpito da proporre a mia madre di trasferirsi lì, in una casa con giardino in via Vincenzo Vela n°1, dove sono nata io”.
“Ricordo quel periodo come uno dei più sereni e felici per mia madre – continua la signora Rosaria – ma l'armistizio dell' 8 settembre '43 sconvolse nuovamente la sua vita. La paura che gli ebrei e i disertori, che abitavano a Ponte Chiasso, venissero deportati nei campi di concentramento spinse mio padre, molto generoso per natura, con l'appoggio di mia mamma a nascondere per tre giorni, dall'8 all'11 settembre, centinaia di persone, che riuscirono a passare attraverso un buco nella rete del giardino retrostante di casa nostra, che faceva da linea di confine tra Italia e Svizzera, dove poterono ritrovare la loro libertà. Io allora ero piccola, ma ricordo ancora la nostra casa gremita di gente, e mia madre che si dava da fare in mille modi per non far mancare loro nulla”.
“Passati però quei giorni – prosegue l'anziana signora – mio padre, per non essere fucilato, decise di trasferirsi, su consiglio di un amico tedesco, in Germania portando con se i miei due fratelli più grandi. Io rimasi con mia madre e il fratello più piccolo; sembrava che fosse ritornata un' apparente calma e invece da lì a qualche giorno mia madre venne contattata da una vicina di casa, che le propose di fare da “postina”, portando documenti e soldi, con il supporto di un giovane finanziere sardo, Giovanni Gavino Tolis, ad alcuni gruppi di partigiani comaschi rifugiatisi in Svizzera. Mia madre dopo qualche esitazione, dovuta alla preoccupazione per la nostra incolumità, decise di accettare. Lo scambio di informazioni e denaro durò per qualche tempo ma ad un certo punto nel 1944 arrivarono i primi sospetti dalla milizia fascista e dalla Guardia di Finanza, che venne a perquisire la nostra casa, dove mia madre aveva temporaneamente nascosto documenti preziosi. Venne arrestata e deportata in Germania nel campo di concentramento di Ravensbruck”
“Io avevo 11 e mio fratello 8 – dice la signora Rosaria, con voce tremolante – ma non potrò mai dimenticare il momento in cui portarono via mia madre e noi rimanemmo completamente soli. Venne a prenderci un lontano parente e fummo ospitati in due collegi diversi, dove rimanemmo per qualche tempo. Mio padre con i due fratelli ritornò d'improvviso dalla Germania agli inizi del '45 e a quel punto potemmo fare ritorno a casa. Ma ci mancava la nostra mamma, il non sapere dove fosse, se fosse viva e in che condizioni, ci faceva star male”.
“Un giorno alla fine del 1945 – continua tra le lacrime la signora Rosaria – bussarono alla porta di casa e quando aprii e vidi la mia mamma, stremata ma viva, un'emozione fortissima mi assalì e non riuscii a parlare per parecchi minuti, tanta era la commozione nell'averla ritrovata. Lei, che aveva un carattere schivo e riservato, raccontò molto poco sia degli anni in cui faceva la “staffetta” sia di quelli in cui era internata nel campo di concentramento. Sono riuscita a fatica a farmi raccontare qualcosa, ma lei non appena capiva che stava per lasciarsi andare, si tratteneva perché non voleva soffrire e farci soffrire. Così sono venuta a sapere dei documenti nascosti in casa e del fatto che a salvarla in Germania fu una Kapo slovena, che l'aveva presa in simpatia. La mamma ci disse che quando arrivarono i russi a liberare il campo la kapo non la lasciò un attimo, perché temeva che se i russi avessero scoperto che era italiana l'avrebbero fucilata per vendetta. Mi sono pentita negli anni di non aver mai provato a rintracciare questa signora, che di fatto le salvò la vita.”
“Mia madre non ha avuto una vita serena – conclude la signora Rosaria – a tal proposito ricordo la sua sofferenza quando mio padre, che è morto a 56 anni, andò via di casa nel tentativo di ricominciare daccapo con un nuovo lavoro nel campo della ristorazione. La mamma però lo ha perdonato e gli è sempre rimasta vicina con un affetto immutato nel tempo. Lei è morta nel 1976 a 70 anni, per un'emorragia cerebrale. Gli ultimi anni della sua vita li ha trascorsi in un nuovo appartamento che nel frattempo avevo comprato con i miei risparmi, lavorando come fatturista nella Casa di spedizione di Ponte Chiasso. Il suo pensiero, però, ritornava spesso a quel giardino di via Vela, in cui sapeva bene di aver trascorso i migliori anni della sua vita. Quelli che, insieme con noi figli, le avevano dato un senso”.