Pubblicato il: 14/05/2020 alle 20:45
Era l'11 marzo quando Caltanissetta è stata travolta dal dramma del coronavirus. La notizia di un biologo arrivato in ospedale e deceduto poche ore dopo aveva colpito tutti profondamente. Quel virus di cui da mesi sentivamo parlare in televisione, prima in Cina, poi in Nord Italia era arrivato anche qui, manifestandosi in tutta la sua gravità. La paura in poche ore si era trasformata in viva apprensione. In quei giorni Caltanissetta, diventata una città vuota, avvolta dal silenzio, sperimentava qualcosa che molti di noi non avevano mai visto prima. Ricordo ancora in uno di quei primi pomeriggi dopo l'11 marzo il suono della serena di un'ambulanza del 118 che squarciava quel silenzio. Un suono sinistro accompagnato dalla visione dei tanti che uscivano sul balcone. Le mani sul petto, la paura che lì dentro ci fosse un altro contagiato, un nostro caro, un amico o semplicemente un concittadino. I giorni dopo, ripensandoli adesso, si sono rivelati drammatici. Uno dopo l'altro i pazienti arrivavano all'ospedale Sant'Elia, chi con gravi insufficienze respiratorie, qualcuno con una polmonite, altri con una febbre che a quel punto faceva paura. Poi sono cominciati i decessi, uno dopo l'altro. Medici e infermieri del Sant'Elia si sono trovati a guardare quelle tac spaventose. Polmoni letteralmente devastati dal virus. Molti pazienti, scambiando il virus per una banale influenza, sono arrivati in ospedale troppo tardi. Nessuno pensava di essere venuto a contatto con quel nemico subdolo che, d'altronde, si manifestava poi in tutta la sua gravità in maniera così repentina che in certi casi non ha lasciato più scampo. In quei giorni ho avuto contatti continui con i medici del Sant'Elia. "Una cosa così non l'abbiamo mai vista, hanno polmoni devastati". Parole pronunciate con una innegabile preoccupazione ma allo stesso tempo con la determinazione di dover combattere, provarci fino alla fine. Tredici i pazienti che non ce l'hanno fatta. Soli, senza i parenti. Ma medici e infermieri, prima della triste consegna della salma, non hanno fatto mancare le preghiere. Intanto dagli appartamenti applausi per sanitari e forze dell'ordine, inno d'Italia, musica dai balconi. Ci si dava coraggio come si poteva in quei primi giorni in cui sembrava di essere stati catapultati in un vero e proprio incubo. Una delle frasi che non dimenticherò mai me la disse proprio un medico: "Sentire la messa dagli altoparlanti. E chi le ha viste mai cose simili? E' tutto così surreale". Nei giorni sono arrivate finalmente le nuove terapie per i pazienti. Prima il tocilizumab, poi l'eparina. Farmaci che non sono la soluzione ma che in molti casi, e somministrati per tempo, hanno avuto i loro effetti positivi. E i pazienti colpiti da febbre o altri sintomi non hanno più tardato a presentarsi in pronto soccorso o a chiamare il 118. A poco a poco la terapia intensiva Covid-19 dell'ospedale Sant'Elia si è svuotata fino ad arrivare alla chiusura il 3 maggio. Nessuno è più morto dal 24 aprile. Oggi i dati sono sempre più confortanti. Pian piano il Governo e la Regione hanno cominciato ad allentare le misure di contenimento. Timidamente i cittadini sono usciti nuovamente dalle loro case. La vita riprende con più normalità. Gli sportivi tornano a correre, nelle strade di periferia bimbi in bici e genitori che si fermano a parlare, con le mascherine e lontani l'uno dall'altro, ma meno terrorizzati. La vita sembra tornare per le strade. Nel frattempo si è insinuato l'altro dramma, quello economico. Parrucchieri, ristoratori, commercianti, hanno paura di non farcela. I costi per riaprire sono alti e la vera normalità è ancora lontana, nel frattempo non hanno incassato un euro. La ripresa sarà difficile, è innegabile. Voglio pensare però ad una città che vuole rialzarsi e ai tanti nisseni che un giorno torneranno a sedersi al bar parlando di questa storia come un brutto ricordo. Saremo più buoni? No, non lo penso. Ognuno di noi rimane quello che è. Sicuramente però, accanto a chi additava gli "untori" o faceva rimbalzare da un telefono all'altro nomi di probabili contagiati, considerati quasi come i colpevoli, ho visto, dall'altra parte, tanta umanità e solidarietà. Da chi ha donato mascherine e dispositivi di protezione a chi ha preparato i pasti per medici, poveri, forze dell'ordine. Ho visto che quel "lato" buono della società esiste. Ed è quello che ci fa sperare in un futuro migliore e che ci può sempre far pensare di non essere soli. Rita Cinardi