“Nei giorni immediatamente successivi alla strage di via d’Amelio nell’attività immediatamente sviluppata dalla Procura di Caltanissetta ci venne comunicato che il procuratore capo Tinebra aveva chiesto e ottenuto dal procuratore generale di Palermo di poter avere un ufficio a sua disposizione dentro il palazzo di giustizia di Palermo che venne concesso al primo piano. Tinebra mi contattò per incontrarmi. Ci andai”. A raccontare le fasi subito dopo la strage di Via D’Amelio del 19 luglio del 1992 in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta è l’avvocato Antonio Ingroia, chiamato oggi a deporre come teste nell’ambito del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage che si svolge a Caltanissetta.
“Tinebra – continua Ingroia rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso – si presentò vestito in maniera informale e mi disse che voleva farsi un’idea se c’erano cose particolari sul quale indirizzare le indagini. Mi parve importante e significativo metterlo a parte di ciò che avevo saputo la sera stessa della strage seduto su una delle panchine dei corridoi della Procura di Palermo. Eravamo io la collega Teresa Principato e il collega Ignazio De Francisci, entrambi sostituti, che mi raccontarono di aver appreso da Paolo Borsellino, il sabato 18, quando io non ero in ufficio, che uno o due giorni prima aveva interrogato Gaspare Mutolo il quale, fuori verbale, gli aveva anticipato delle rivelazioni che aveva da fare su uomini dello Stato e cioè Bruno Contrada e il magistrato Domenico Signorino”.
“Nell’ultima fase della sua vita Paolo Borsellino teneva la porta del suo ufficio sempre chiusa. Il suo carattere era sempre stato allegro ed estroverso, a differenza di quello di Giovanni Falcone che era più riservato. Quindi era uno che aveva sempre tenuto la porta aperta con un viavai continuo di colleghi. Nell’ultimo periodo teneva sempre chiusa la porta. Mi disse che era per tutelare la sua riservatezza, perché chiunque passava vedeva con chi si incontrava. Non si fidava più”. “Ricordo – ha aggiunto Ingroia, rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Trizzino – che incontrandomi nella sua stanza mi disse di non dire a nessuno di una importante collaborazione che stava per arrivare. La prima volta non mi disse neanche il nome, mi disse che c’era un grosso pentito che si apprestava a collaborare e che a suo parere poteva fare luce su legami tra Cosa Nostra e altri ambienti. Mi disse di non dirlo neanche a Roberto Scarpinato, perché quest’ultimo era uno con cui io parlavo”.
“Borsellino si recò a Roma al ministero dell’Interno e riferì che con una scusa venne accompagnato in una stanza in cui incontrò Bruno Contrada. Quest’ultimo era a conoscenza dell’inizio della collaborazione di Mutolo. Borsellino lo percepì come un segnale preoccupante. Pensò che qualcuno dal ministero dell’Interno voleva fargli sapere che Contrada non era solo e c’erano loro dietro di lui. Questo lo appresi da Carmelo Canale e poi da Agnese Borsellino”.
“Nell’ultima fase della sua vita Paolo Borsellino teneva la porta del suo ufficio sempre chiusa. Il suo carattere era sempre stato allegro ed estroverso, a differenza di quello di Giovanni Falcone che era più riservato. Quindi era uno che aveva sempre tenuto la porta aperta con un viavai continuo di colleghi. Nell’ultimo periodo teneva sempre chiusa la porta. Mi disse che era per tutelare la sua riservatezza, perché chiunque passava vedeva con chi si incontrava. Non si fidava più”.
“Ricordo – ha aggiunto Ingroia, rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Trizzino – che incontrandomi nella sua stanza mi disse di non dire a nessuno di una importante collaborazione che stava per arrivare. La prima volta non mi disse neanche il nome, mi disse che c’era un grosso pentito che si apprestava a collaborare e che a suo parere poteva fare luce su legami tra Cosa Nostra e altri ambienti. Mi disse di non dirlo neanche a Roberto Scarpinato, perché quest’ultimo era uno con cui io parlavo”.