Pubblicato il: 19/05/2022 alle 06:40
(di Giuseppe Martorana, Centro Studi Pio La Torre). Entrò per la prima volta in un’aula giudiziaria dieci mesi dopo il suo pentimento. Lo fece nell’aula bunker di Caltanissetta dove si stava celebrando il processo per la strage di Capaci. Indossava un abito color fumo di Londra. Camicia in tono. Dieci mesi prima, nel cortile della questura di Palermo, prima di essere trasferito in carcere, aveva lo sguardo perso nel vuoto e gli occhi sbarrati mentre fotografi e cameraman lo riprendevano. Dieci mesi dopo a Caltanissetta non era lo stesso Giovanni Brusca. Entrò in aula e salì sul pretorio con passo deciso, dimagrito, sicuro di sé. Si sedette senza essere protetto né da paravento né da uomini di scorta perché non era ancora stato inserito nel programma di protezione.
Era il pomeriggio del 27 marzo del 1997. Un giovedì. Ad interrogarlo il pubblico ministero Luca Tescaroli. Fu un fiume in piena colui che nell’immaginario collettivo, e non, è visto con un telecomando in mano mentre fa saltare un pezzo di autostrada e cinque vite umane. Ad ascoltarlo dalle gabbie dell’aula bunker i suoi ex complici nella strage di Capaci. Quel giovedì 27 marzo 1997 era carica di tensione l’aula bunker di Caltanissetta. Sul pretorio a testimoniare non c’era uno dei tanti pentiti che avevano già raccontato molto del massacro che costò la vita a Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti Rocco Dicillo, Vito Schifani ed Antonio Montinaro. No, non era uno dei tanti. Era colui che aveva scatenato l’inferno sull’autostrada che collega Punta Raisi con Palermo.
Cominciò a rispondere alle domande del pubblico ministero quasi sottovoce, poi piano piano il suo tono aumentò. Sul perché decise di collaborare disse: “Ho deciso di liberarmi di un peso, quando parlo con i magistrati mi sento la coscienza più libera”. In aula conferma quanto già detto ai magistrati: “Sì, sono colpevole della strage di Capaci, ho schiacciato io il telecomando”. Il pm Tescaroli, però, contesta a Brusca di avere detto, subito dopo la decisione di voler collaborare, alcune falsità. Brusca replicò duramente: “Io non mi giudico, sarà la Corte a farlo. Posso solo dire che qualche bugia inizialmente l’ho detta, ma subito dopo ho confessato e ho anche spiegato il perché di quei fatti raccontati diversamente dalla verità, ma ora chiedo soltanto di poter raccontare tutto ciò che è a mia conoscenza”.
Ma allora e forse ancora oggi Brusca è ancora da interpretare. Verità e bugie miscelate fra loro. Dichiarazioni fatte e poi ritrattate o cambiate. E ancora indicazioni smentite da altri collaboratori. Viene quindi in mente una terribile logica mafiosa, che recita così: “Amputare il braccio incancrenito per salvare il resto del corpo”, ovvero affossare la “vecchia” commissione, già nelle patrie galere con sentenze definitive, per salvare la “nuova” commissione formata in gran parte da latitanti. Era questo il teorema di Brusca? A tutt’oggi non c’è risposta. Dopo quei tre giorni il pm Luca Tescaroli riassunse così quella testimonianza: “Abbiamo raccolto un elemento probatorio che va confrontato con gli altri che fanno parte del processo. Brusca non ha fornito apprezzabili elementi nuovi. Per quanto riguarda l’aspetto esecutivo della strage ha ripercorso quanto dichiarato dai collaboratori”.
Nel corso degli anni ha cercato di spiegare e spiegarsi ma Brusca rimane lo stragista di Cosa nostra, è stato lui stesso all’inizio della sua collaborazione a precisare: “Quello che ho fatto con Chinnici ho fatto con Falcone” poi aggiunse di avere compiuto oltre 150 omicidi.
A Caltanissetta quella fine di marzo del 1997 parlò per tre giorni di fila. Parlò del perché, secondo la sua versione, ci furono le stragi, “Salvatore Riina voleva uccidere tutti coloro che in qualche modo avevano tradito la fiducia di Cosa nostra. Dovevamo chiudere i conti con quel ramo politico con la speranza di aprirne altri. Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio Totò Riina presentò il conto ad esponenti politici e qualcuno si fece vivo”. In quel momento Brusca lasciò intuire l’esistenza di una trattativa tra lo Stato e la mafia finalizzata a fermare la violenza stragista.
“L’uomo politico che in quel momento era maggiormente odiata da Riina – aggiunse Brusca – era Giulio Andreotti. Quando si era nella fase operativa della strage di Capaci si stava votando in Parlamento per la elezione del presidente della Repubblica e Andreotti era uno dei maggiori candidati. Riina mi disse che sperava che la strage avvenisse in quei giorni in maniera tale da bloccare l’elezione di Andreotti e quando ciò avvenne mi disse che avevamo preso due piccioni con una fava”.
Brusca in quei tre giorni nisseni ha parlato anche del tentativo di accordo tra Stato e mafia. “Bastava un’altra strage, un altro colpo e Riina avrebbe vinto. Aveva già presentato il papello, delle richieste scritte su due fogli protocollo. Descrisse dettagliatamente le ore che precedettero la strage di Capaci, il momento dell’esplosione, e cosa avvenne subito dopo. Lo raccontò con calma, senza particolari emozioni. “I compiti erano già stati stabiliti. Tutti sapevamo cosa dovevamo fare quando arrivava il segnale. Così è stato quando il gruppo di Palermo, formato dai Ganci e da Salvatore Cancemi ha dato il segnale che l’auto del giudice Falcone aveva lasciato il garage ed era diretta verso Punta Raisi. In quel momento ci trovavamo nel casolare, io, La Barbera, Gioè, Battaglia, Biondino e Troia. Io, Biondino e Battaglia ci dirigiamo sulla collina, gli altri escono pure, vanno ad azionare la ricevente che si trovava nei pressi dell’autostrada, e subito dopo La Barbera va verso l’aeroporto, mentre Gioè ci raggiunge e ci da l’ok che è tutto a posto.
Subito dopo si mette al cannocchiale, mentre io ho già in mano il telecomando. Il compito di La Barbera era quello di passare dalla ricevente, andare a togliere la protezione in plastica, che è un tubo di benzina, inforcare i fili, azionare la ricevente, mettersi in macchina ed andarsene. Dopo doveva segnalare appena vedeva il dottor Falcone. Doveva segnarlo telefonando a Gioè e così è stato. A Gioè doveva dire a che velocità andava il dottor Falcone. Quando io ad occhio nudo ho visto la macchina, ho visto che rallentava, non riuscivo a capire perché La Barbera diceva un’altra velocità, vedevo ad occhio nudo che non andava a quella forza. Gioè mi dice vai, ma io non so perché ero bloccato. Gioè mi grida ancora vai, ma io non premo il pulsante. Gioè grida per la terza volta e a questo punto premo il telecomando e non vedo più nulla. Solo fumo e fiamme. Poi sento scoppi a ripetizione, probabilmente erano i bidoni che non sono esplosi contemporaneamente. Io poi ho saputo dai giornali che il dottor Falcone aveva tolto le chiavi della macchina e la velocità si era ridotta, poi ha rimesso le chiavi ed è ripartito un’altra volta. Se andava per come… cioè si era programmato, cioè succedeva la disgrazia solo al dottor Falcone. Lì, in quel momento ho avuto anche rimorso, ma si doveva fare. Cosa nostra lo aveva voluto ed io ho ubbidito”. Brusca si ferma nel suo racconto solo un attimo poi prosegue: “Dal luogo della strage ci allontanammo a bordo di due Clio, con me c’era Gioè. Passammo da Torretta, Bellolampo e Boccadifalco e una volta giunti in via Michelangelo, all’altezza di Borgo Nuovo, salutammo Biondino che si diresse altrove. Io avevo un appuntamento nell’abitazione di Girolamo Guddo e Gioè mi lasciò davanti al portone di ingresso. All’interno vi trovai Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi. Ascoltammo la televisione dalla quale, in un primo momento, apprendemmo che Giovanni Falcone non era deceduto, al che Cancemi reagì dicendo che “questo cornuto se non muore ci darà filo da torcere. Questo maledetto non vuole morire”.
A distanza di una mezzora, alla notizia fornita dalla televisione del decesso del magistrato, Cancemi d’impeto si alzò per sputare verso il televisore e subito dopo, gioendo per la notizia, usciva dalla tasca del denaro che consegnava ad un ragazzo lì presente, a nome Giovanni, incaricandolo di andare a comprare una bottiglia. Avuta la bottiglia si effettuò un brindisi”. Un interrogatorio quello di Giovanni Brusca iniziato il 27 marzo del 1997, Giovedì santo e conclusosi alla vigilia della Pasqua di quell’anno. Un interrogatorio atteso per mesi, ma che non aggiunse più di tanto a quanto, processualmente già si era conoscenza. Va anche ricordato come l’ingresso di Brusca nell’aula bunker nissena fu sottolineato dal commento di Leoluca Bagarella: “Trasiu u maiali”.