Pubblicato il: 06/01/2014 alle 10:43
A trent'anni dalla morte del cronista Pippo Fava, riportiamo la testimonianza del figlio Claudio pubblicato sul sito www.livesicilia.it.
Claudio FavaTrent’anni sono la misura di una vita. Ma quando sei chiamato a fare bilanci sono solo un tempo avaro, asciutto, come se fossi sempre inchiodato alla seconda notte.
La prima notte ci fu l’omicidio. La notte dopo arrivò la lettera di Riccardo. La trovai a casa, dopo il funerale. Non ricordo più cosa ci fosse scritto, mi sono rimaste impresse solo le prime righe. Diceva che quella notte fuori c’era una luna piena, d’una luce gialla, fresca come una pittura. Ma non ti fare illusioni, mi scriveva Riccardo, non sarà più la stessa luna: non sarà più nulla come prima, né noi e nemmeno le cose attorno a noi. Perché la prima notte passa in fretta, la seconda notte non finisce più.
Più o meno è andata così. Ci siamo fatti uomini alla svelta, siamo invecchiati, abbiamo consumato quintali di carta a raccontare le cose nostre e degli altri, abbiamo camminato per il mondo e siamo sempre tornati a guardare in faccia la Sicilia più cupa, riluttante ai cambiamenti, ingorda e bugiarda. Ma abbiamo imparato a riconoscere anche un’altra Sicilia, quella lieve, di anima ferma e gentile, che non s’è mai voltata dall’altra parte.
Dopo trent’anni molte cose sono cambiate e molte cose sono rimaste immobili. La linea delle palme è definitivamente fuggita altrove, Brianza, padania, quei luoghi lì. Il mestiere di mafioso s’è fatto più misurato, la violenza più selettiva, la menzogna meno sfacciata. E’ cambiato il modo di fare questo mestiere che oggi cammina su gambe svelte, pensieri diritti, cronisti giovani di spirito e di sguardo, senza portare attorno al collo la corda della solitudine che appartenne alla mia generazione. E’ cambiata perfino la politica che ha imparato a mascherare le proprie vergogne, ad esibirle meno, a nascondere meglio le parole dentro altre parole.
Siamo cambiati meno noi. Noi siciliani. Ci nutriamo del dolore altrui, ne facciamo occasione di orgoglio e di tragedia collettiva ma poi lo sputiamo lontano da noi come un osso d’oliva. Siamo instabili, volubili, pigri, inafferrabili. Anche quando c’è da ricordare i nostri morti, e vorremmo tutti piangere, batterci il petto, e tutti insieme ricordare, rammentare, evocare, commemorare. Fino alla seconda notte: poi basta.
Uomini come Giuseppe Fava mancano ai siciliani. Che ne sono orfani due volte. Perché li hanno visti morire. E perché non li hanno ascoltati vivere abbastanza a lungo. Trent’anni dopo sembra ieri l’istante in cui perdemmo tutti la nostra innocenza. Ecco, il bilancio in fondo si riduce a queste due parole, come una croce sulla vita: sembra ieri.