Pubblicato il: 24/01/2025 alle 17:10
Non sarà bella l’ immagine che sarà data al Paese e del Paese. L’annunciata uscita dei magistrati, aderenti ad ANM (Associazione Nazionale Magistrati ndr), dalle aule, ove domani in tutti i distretti giudiziari sarà inaugurato il nuovo anno giudiziario, al momento dell’intervento del rappresentante del Guardasigilli, manifesta non solo lo stato di malessere di un settore della magistratura ma la triste e angosciante deriva istituzionale.
Senza in questa sede entrare nel merito della riforma costituzionale, relativa alla separazione del carriere, che si appresta a varare il Parlamento, la protesta dei magistrati si rivela del tutto priva di ossequio ai princìpi propri costituzionali cui gli stessi magistrati sono chiamati a difendere e soprattutto ad applicare.
La Carta fondamentale attribuisce al Parlamento la funzione legislativa mentre la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati che sono soggetti soltanto alla legge. Dunque, la magistratura è un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.
Ognuno, secondo i principi costituzionali, deve stare al suo posto senza sconfinamenti, senza arbitrarie e non dovute invasioni di campo. Ciò certo non impedisce di manifestare il proprio pensiero, principio anch’esso presidiato dalla Costituzione repubblicana, ma non autorizza il mancato rispetto del ruolo costituzionale assegnato ai diversi poteri dello Stato. L’art. 111 della Costituzione, novellato nel 1999, tanto voluto dagli avvocati penalisti italiani, sancisce che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge e ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. La riforma in cantiere serve a dare piena attuazione al superiore precetto.
Il comportamento di ANM fa male ed è foriero di derive istituzionali. Certo è che così la giurisdizione non è osservata, né tutelata. La tensione è alta e lo scontro istituzionale è tangibile. Lo sconfinamento di campo porta inevitabilmente al conflitto, allo scontro tra poteri. Le prerogative costituzionali sono sovrane e non possono giammai essere messe in discussione.
L’Avvocatura pur spesso non apprezzando talune leggi mai ha osato venir meno alle regole del buon senso, del bon ton, del garbo istituzionale anche se in molte occasioni ne avrebbe avuto ragione per disattenderle.
Di certo è che non è in gioco la democrazia del Paese, né sono in gioco diritti fondamentali dell’uomo che potrebbero giustificare comportamenti così conflittuali perché diversamente già si sarebbe levata, in modo forte ed autorevole, la voce dell’Avvocatura che da sempre e ovunque nel mondo costituisce il baluardo contro i soprusi e le barbarie.
Sono molti gli avvocati, specie nei regimi dittatoriali, che hanno sacrificato e sacrificano la loro vita in difesa delle libertà.
La nostra Costituzione repubblicana è una garanzia di libertà e i suoi princìpi, come quello della separazione dei poteri, vanno rispettati.
Non si può allora in questo contesto che valorizzare ancor di più quanto scritto, molti anni fa, dall’illustre costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella sua opera Il diritto mite:
<< C’è oggi certamente una grande responsabilità dei giudici nella vita del diritto, sconosciuta negli ordinamenti dello Stato di diritto legislativo. Ma i giudici non sono i padroni del diritto nello stesso senso in cui il legislatore lo era nel secolo scorso. Essi sono più propriamente i garanti della complessità strutturale del diritto nello Stato costituzionale, cioè della necessaria, mite coesistenza di leggi, diritti e giustizia. Potremmo anzi dire conclusivamente che tra Stato costituzionale e qualunque “padrone del diritto“ c’è una radicale incompatibilità. Il diritto non è oggetto in proprietà di uno ma deve essere oggetto delle cure di tanti e, come non ci sono “padroni“, così simmetricamente non ci sono “servi” del diritto >>.
Avvocato Giuseppe Dacquì