Pubblicato il: 12/11/2024 alle 13:35
Due interventi in emodinamica gli hanno salvato la vita e oggi, appena uscito dall'ospedale dopo una settimana di degenza, Fabio Ruvolo, presidente della cooperativa Etnos ha deciso di raccontare l'esperienza appena vissuta per ringraziare i suoi angeli.
Tutto è iniziato in un momento di inquietudine, un’angoscia profonda che mi attanagliava senza apparente motivo, come se un’ombra invisibile stesse già gettando il suo velo. Danilo, un amico caro, aveva avuto un infarto improvviso, un evento che mi ha scosso fino in fondo all'anima. Sentivo che quel segnale, quella sofferenza, non era solo una circostanza da affrontare e dimenticare, ma un richiamo. Mi spingeva a guardare dentro me stesso, a riflettere sulla mia stessa vita. E' stato così che, con il cuore colmo di timori e domande senza risposta, mi sono rivolto a Luigi Scarnato, un amico che nel tempo è diventato per me un punto di riferimento non solo medico, ma anche umano, un cardiologo con una vocazione quasi sacra per il suo lavoro.
Luigi mi ha accolto con il suo sguardo attento e calmo, capace di infondere sicurezza anche nel cuore più angosciato. Le sue parole si sono dipanate come un invito a essere vigile, a non trascurare la prevenzione. Mi ha spiegato che molte persone, proprio come Danilo, arrivano a situazioni estreme perché non hanno mai avuto modo di percepire i segnali del loro corpo, non hanno mai pensato che la malattia potesse toccarli così da vicino. Quelle parole mi hanno fatto riflettere profondamente. Ho sentito che qualcosa mi stava parlando attraverso di lui, qualcosa di invisibile eppure straordinariamente reale. Ho deciso così di affidarmi alla sua guida e di sottopormi a un controllo cardiologico.
Il 5 novembre, dunque, alle 9:30 mi sono presentato per lo screening. Il mio cuore sembrava in condizioni tutto sommato buone, nulla che potesse destare una reale preoccupazione, a parte una leggera anomalia che Luigi voleva tenere sotto controllo con ulteriori accertamenti. Ma in quel momento è accaduto qualcosa di inspiegabile, come se un soffio divino avesse attraversato la stanza. Luigi mi ha fissato con un’intensità nuova, come se stesse captando qualcosa che solo lui poteva vedere, e poi, quasi guidato da una mano invisibile, mi ha detto: “Fabio, sento che devi andare subito in pronto soccorso. Non so dirti perché, ma è necessario, è una questione di vita o di morte.”
Sono rimasto spiazzato. Nessun esame, nessun segno clinico indicava un’urgenza del genere, eppure il suo sguardo era determinato, il tono della sua voce così fermo e certo che non potevo ignorarlo. Con mia moglie al fianco e la mente in subbuglio, ho deciso di affidarmi a quell’intuizione, come se qualcosa di più grande stesse spingendo entrambi verso quel destino. Siamo arrivati al pronto soccorso, e lì, mentre aspettavo, un dolore violento e improvviso mi ha colto al petto. E' stato come una rivelazione, come se ogni cosa, ogni singolo passo, ci avesse condotto a quel preciso istante.
Gli infermieri e i medici mi si si sono stretti intorno, il loro volto serio e concentrato; ogni secondo sembrava essenziale, ogni gesto parte di una sinfonia urgente e irripetibile. Mi hanno portato in sala operatoria, e lì mi ha accolto il dottore Giovanni Longo, un uomo dal volto determinato e dalle mani sicure, un angelo che sembrava essere stato inviato per me. Il mio cuore era in bilico, l’infarto era in corso, eppure sentivo una serenità che non riuscivo a spiegare. Era come se tutto fosse stato preparato, come se una forza invisibile avesse orchestrato ogni dettaglio affinché arrivassi proprio lì, proprio in quel momento.
Mi sentivo il cuore pesante e al tempo stesso fragile, come se ogni battito potesse essere l’ultimo. Non riuscivo ad aprire gli occhi. Sapevo che attorno a me c’era chi stava lottando per la mia vita, ma io mi ritrovavo in un luogo che era solo mio, un luogo fatto di ricordi, di paure, e di un dialogo silenzioso e intenso con Dio. Era come se la mia anima cercasse un appiglio, un respiro che andasse oltre il mio corpo affaticato. E' stato in quel momento che ho iniziato a pregare.
“Signore,” sussurravo tra me, senza voce ma con tutta la forza del cuore, “ti affido la mia vita. Guidami, ti prego, nelle mani di questi angeli in camice. Illumina la loro strada come stai facendo con la mia. Se davvero è il momento di tornare a Te, rendimi sereno; ma se c’è ancora un domani per me, concedimi di riaprire gli occhi, di tornare dai miei cari.”
Sentivo le voci attorno a me, percepivo l’urgenza nei gesti e nei movimenti, ma tutto era ovattato, come se mi trovassi a metà tra la terra e il cielo. Ed è lì, nel silenzio del mio cuore, che la preghiera si è fatta più intensa, un grido muto che saliva come un fiume in piena, colmo di gratitudine e supplica.
Mi sembrava di fluttuare, sospeso tra il dolore e una pace profonda, un luogo in cui la paura si mescolava con un senso di abbandono fiducioso. Sentivo che la mia vita non era più nelle mie mani, ma era stata affidata a Lui, al Suo disegno. Mi sono ritrovato a pronunciare parole che avevo imparato da bambino, come se fossero riaffiorate per accompagnarmi: “Padre nostro, che sei nei cieli…”. Ogni parola era come un’ancora che mi teneva saldo mentre tutto attorno sembrava sfumare.
E continuavo a pregare, senza sosta. Ogni preghiera, ogni supplica era un filo invisibile che mi univa a Dio e a tutti coloro che mi amavano. Mi tornavano in mente i volti dei miei cari, le mani di mia moglie, i sorrisi dei miei figli. Pregavo per loro, perché trovassero la forza, qualunque fosse il destino che mi attendeva. E tra una preghiera e l’altra, una luce interiore si accendeva, come se un filo di speranza mi legasse ancora alla vita.
Giovanni e il suo team mi hanno salvato la vita con competenza e una dedizione che mi hanno lasciato senza parole. Ogni loro gesto era una preghiera silenziosa, un atto di amore puro, una dimostrazione che dietro ogni grande medico c’è una persona profondamente dedita alla vita degli altri. Quel miracolo non era stato casuale. Sentivo, con tutta l’intensità del mio essere, che Dio stesso era intervenuto attraverso quelle persone, attraverso il consiglio di Luigi, attraverso le mani di Giovanni. Il mio cuore, che era stato così vicino a fermarsi, ha ripreso il suo battito, e con esso anche la mia anima si è risvegliata, grata e colma di meraviglia.
Dopo l’intervento, sono stato portato in terapia intensiva, dove il silenzio mi ha avvolto e mi ha dato modo di riflettere, di rivivere ogni attimo. Ogni volta che ripercorrevo quei momenti, sentivo che nulla era stato lasciato al caso: Luigi, Giovanni, mia moglie, gli infermieri… erano tutti parte di qualcosa di più grande, di un disegno divino che mi aveva protetto, salvato, risvegliato. E così, in quei giorni difficili, ho scoperto che la malattia può essere anche un dono, uno strumento che ci permette di vedere con occhi nuovi, di sentire con il cuore.
Gli infermieri che mi circondavano, i medici, ogni membro del personale, non erano solo professionisti; erano custodi della mia dignità, della mia speranza. Ogni sorriso, ogni parola di conforto era come una carezza, un messaggio di fede e di amore che mi faceva sentire meno solo, meno vulnerabile. Sentivo che la loro dedizione era una missione, un impegno che andava oltre il dovere. Ogni piccolo gesto era un modo per dirmi che valevo, che ero importante, che il mio dolore non era solo mio, ma condiviso, accolto.
Accanto a me, nei letti vicini, c’erano altre anime in lotta. E in quei momenti di silenzio e attesa, si creava un legame invisibile, un’intesa che solo chi attraversa la stessa sofferenza può comprendere. Non ci servivano molte parole, bastava uno sguardo, un sorriso. Eravamo una piccola comunità, uniti da un cammino difficile, ma accompagnati da un’incredibile forza che ci permetteva di non sentirci soli. Era come se Dio stesso, attraverso quelle persone, attraverso quei medici e infermieri, ci avesse ricordato che non siamo mai soli.
Quest’esperienza mi ha insegnato che il miracolo della vita non è solo il battito del cuore, ma è anche la cura, il conforto, il sorriso di chi è accanto a noi nei momenti più bui. Ogni vita è preziosa, ogni giorno è un dono, e a volte dobbiamo arrivare a un passo dal baratro per capirlo davvero.
Oggi, sento di dover condividere questa storia non solo per gratitudine verso coloro che mi hanno salvato, ma anche come un invito. Rivolgo un appello ai vertici della sanità: non possiamo permetterci di privare il nostro territorio di queste eccellenze, di questi angeli in camice che ogni giorno donano più di quanto si possa immaginare. Sono le loro mani, il loro tempo, la loro presenza accanto ai malati che spesso fanno la differenza tra la vita e la morte. Non possiamo voltare le spalle a chi, con sacrificio e dedizione, lavora senza sosta per curare e alleviare il dolore.
È necessario ascoltare la voce di chi vive quotidianamente la sofferenza e la speranza dei pazienti. Gli ospedali hanno bisogno di personale, di risorse, di umanità. Non si cura solo il corpo, si cura l’anima, si preserva la dignità di chi soffre, di chi si trova costretto a dipendere dagli altri. Ogni paziente è una vita preziosa e insostituibile, e merita di essere trattato con rispetto e attenzione, senza sentirsi un numero, senza subire la solitudine e l’indifferenza.
Questa storia non parla solo di me; è la storia di chiunque lotti, di chiunque tema di non farcela, ma trova la forza grazie alla compassione di medici e infermieri. Che questa mia esperienza sia un invito a non arrendersi mai, un richiamo alla speranza e alla fede in un sistema sanitario che sappia mettere al centro l’essere umano, che riconosca la sacralità della vita in ogni suo gesto.
Il mio cuore è stato salvato da mani esperte e da anime grandi. E ora, con umiltà e gratitudine, chiedo che questo miracolo sia reso possibile per tutti. Che i vertici della sanità capiscano l’importanza di sostenere e proteggere queste risorse preziose, di ascoltare chi ogni giorno dona tutto se stesso per il bene degli altri. La vita è un dono sacro, e ogni battito, ogni respiro, ogni sorriso dovrebbe essere considerato con la stessa cura con cui loro, i nostri angeli in camice, ci accompagnano in ogni passo.
Ai vertici della sanità ripeto con forza: non possiamo permetterci di abbandonare questi luoghi, di privare il territorio di quelle eccellenze che ogni giorno, come in un miracolo continuo, salvano vite. Questi medici, questi infermieri non sono solo professionisti: sono strumenti di Dio, custodi della vita. È necessario ascoltarli, comprendere le loro esigenze, permettere che abbiano sempre le risorse, il personale e l’assistenza necessaria per donare ai malati non solo una cura, ma anche dignità e speranza.
Ogni malato è un’anima preziosa, un figlio di Dio, e merita di essere accolto, curato, rispettato. La malattia non è solo una battaglia del corpo: è anche un percorso dello spirito, una richiesta di conforto e amore. La sanità deve garantire che ogni persona possa affrontare la sofferenza con la dignità e la serenità che derivano dalla presenza di chi, come me, ha trovato negli sguardi e nelle mani di questi operatori un motivo per sperare, per credere, per vivere.
Vorrei concludere questa storia rivolgendo un pensiero speciale a tutti voi, fratelli, amici e conoscenti, che mi avete accompagnato in questo viaggio che non si è ancora concluso e che forse, in qualche modo, non si concluderà mai. Ognuno di voi è stato una presenza preziosa, una fonte di forza e di conforto in momenti in cui il cammino sembrava incerto.
Dal letto della terapia intensiva, tra le luci e i suoni delle macchine, ho sentito arrivare i vostri saluti, uno per uno, e ognuno di essi ha portato con sé un senso di calore e di vicinanza. Mia figlia si è trovata sommersa dai vostri messaggi, tanti, tantissimi, così tanti che non riusciva a rispondere a tutti. E ogni parola, ogni pensiero, ogni preghiera mi ha raggiunto come un abbraccio che superava le mura dell’ospedale.
Non posso che ringraziarvi dal profondo del cuore. Le vostre preghiere, il vostro amore, il vostro incoraggiamento hanno reso questo percorso meno solitario e meno doloroso. Sento che Dio mi ha benedetto con la vostra presenza e spero che vi ricompensi con la sua grazia e il suo amore.
Questa esperienza mi ha insegnato che la vita è fragile e che è nella rete di affetti e legami che troviamo la nostra vera forza. Grazie di essere stati il mio sostegno e il mio rifugio. Che Dio vi benedica, oggi e sempre.