Pubblicato il: 11/02/2025 alle 15:02
E’ ripreso questa mattina nell’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta, con la deposizione del pentito Pietro Riggio – ex poliziotto penitenziario, sentito come teste assistito – il processo a carico di due ex generali dei carabinieri in pensione accusati del reato di depistaggio, gli ufficiali Angiolo Pellegrini, 82 anni, storico collaboratore del giudice Giovanni Falcone, e Alberto Tersigni, 63 anni, entrambi per anni in forza alla Dia. Secondo la procura di Caltanissetta, rappresentata oggi in aula da pm Pasquale Pacifico, avrebbero ostacolato le indagini della Procura a riscontro delle dichiarazioni del pentito Pietro Riggio, ex agente della polizia penitenziaria poi arrestato con l’accusa di essere legato clan mafiosi. Secondo l’accusa, non avrebbero dato il giusto peso alle rivelazioni di Riggio che avrebbero potuto portare alla cattura dell’allora latitante Bernardo Provenzano e a quelle relative a un progetto di attentato all’ex giudice del pool antimafia Leonardo Guarnotta. Alla sbarra anche l’ex poliziotto Giovanni Peluso, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo la Procura avrebbe agevolato Cosa Nostra favorendo la latitanza del boss corleonese.
“Mentre mi trovavo detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere conobbi alcuni poliziotti, detenuti anche loro. Tra questi vi erano anche Giovanni Peluso e Giuseppe Porto. Fu quest’ultimo a chiedermi se potessi dare una dritta per la cattura di Bernardo Provenzano”. Lo ha detto il pentito Pietro Riggio, ex agente di polizia penitenziaria, nel corso della sua deposizione al processo. L'ex poliziotto Peluso è uno dei tre imputati. “C’era sicuramente – ha continuato Riggio rispondendo alle domande del pm Pasquale Pacifico – un tornaconto per noi come ad esempio poteva essere il rientro alle nostre amministrazioni. Per qualcuno si prospettava anche un ruolo nei servizi. Io in prima persona non ero in grado di dare alcun elemento per portare a questo risultato della cattura di Provenzano. Ma mi sono offerto per trovare un aggancio con Carmelo Barbieri e qualche altro mafioso in auge nella provincia di Caltanissetta come Ciro Vara, Mimì Vaccaro o Giancarlo Giugno”.
“Durante la mia detenzione e dopo la scarcerazione iniziò una corrispondenza con delle lettere tra me e i due poliziotti con cui avevo stretto legami. Ci scrivevamo in codice. Il primo ad essere scarcerato fu Giovanni Peluso, poi Giuseppe Porto, e infine io. Per scriverci utilizzavamo dei nomignoli. Peluso era associato al giaguaro o il turco, Porto era il lord e io ero Elliot, De Nicola lo identificavamo con il nome di Tano – ha precisato Riggio – utilizzavamo questi nomi per evitare che se le lettere fossero state intercettate si potesse risalire a noi. Il codice è stato elaborato da me e da Porto e scritto con la mia scrittura”.
“Alla fine del 2000 mi venne detto di presentarmi alla Dia di Caltanissetta. Dentro trovai il colonnello Angiolo Pellegrini e l’allora maggiore Alberto Tersigni che non conoscevo. Pellegrini che avevo già incontrato a Roma mi precisò che da quel momento in poi faceva servizio in Sicilia e potevamo muoverci come volevamo. Tersigni mi disse che da quel momento qualsiasi cosa fosse successa avrei potuto rivolgermi a lui. Ricordo che Pellegrini mi disse anche ‘devi essere come un ectoplasma, cioè ascolta, guarda e tutto ciò che vedi lo vieni a riferire’”. A raccontare il momento in cui si recò alla Dia di Caltanissetta per formalizzare la sua disponibilità a contribuire alla cattura di Bernardo Provenzano è il pentito Pietro Riggio che rispondendo alle domande del Pm Pasquale Pacifico parlò anche del momento in cui avvenne il suo accreditamento in Cosa Nostra. “Avvenne ad opera di Carmelo Barbieri – racconta Riggio – mi disse di incontrare Dario Francesco che lavorava come portiere all’Asp di Caltanissetta e di dirgli che mi sarei messo a disposizione. Barbieri nel frattempo infatti fece sapere in Cosa Nostra che ero una persona seria e affidabile”. Tornando al colloquio con i due ufficiali Riggio ha precisato che a fine colloquio “rimanemmo d’accordo che dovevo infiltrarmi nella famiglia mafiosa di Caltanissetta, senza commettere reati, muovendomi appunto come un ectoplasma”. Poi il pm Pacifico ha chiesto a Riggio: “Ma poiché Cosa Nostra non è esattamente il circolo del bridge, era possibile infiltrarsi senza commettere reati?”. “No”, ha replicato Riggio.
“Riguardo al giudice Leonardo Guarnotta, Giovanni Peluso, mi disse che dovevamo fare questo pseudo attentato per fare un favore politico. E mi disse ‘conta che dopo l’attentato ce ne andiamo in un posticino tranquillo, all’estero e nessuno ci cerca’. Immediatamente – continua Riggio – telefonai a Tersigni che mi diede le informazioni su come comportarmi. Mi dissero che dovevo dare appuntamento a Peluso nel posteggio alle spalle della Posta centrale di Caltanissetta e, una volta lì, di farlo parlare tranquillamente del più e del meno e che loro si sarebbero appostati sia per controllare che per registrare. Poi effettivamente mi recai in quello spiazzo per incontrare Peluso e appoggiati alle macchine parlammo del più e del meno. Ma Peluso non parlò più completamente dell’attentato”.
“Quando mi disse che si doveva fare l’attentato al giudice Guarnotta, Giovanni Peluso, per supportare il suo discorso, mi parlò della strage ai danni del giudice Falcone. Mi parlò sia di come fu posizionato l’esplosivo, con alcuni skateboard, ma anche di un problema tecnico con il collegamento ad alcuni fusti messi sotto l’autostrada. E mi disse ‘ma tu pensi che sti quattro pecorai erano in grado di fare una cosa del genere?’. Sicuramente hanno avuto un ruolo ma sono stati altri a fare la strage”. Lo ha detto il pentito Pietro Riggio rispondendo alla domanda del Pm Pasquale Pacifico il quale ha chiesto al teste se l’ex poliziotto Giovanni Peluso, oggi imputato a Caltanissetta insieme a due generali dei carabinieri, gli fece mai confessioni in merito alla Strage di Capaci. “Peluso – continua Riggio – mi disse anche che all’attentato della strage di Capaci aveva partecipato una donna dei servizi libici. Della vicenda di Capaci non parlai agli ufficiali della Dia Pellegrini e Tersigni perché era passato del tempo dalla strage e c’erano stati dei processi in cui non si era arrivato a nulla di che. Erano stati condannati mafiosi che non erano in grado di fare quello di cui erano accusati. Ci sono dei fatti che mi hanno fatto ritenere che le istituzioni sono coinvolte in cose non chiare”.