Pubblicato il: 22/04/2018 alle 20:52
Voleva soldi per non diffondere un filmato a luci rosse. Con protagonisti due attori improvvisati. Due colleghi di lavoro che quasi per gioco s’erano fatti filmare da lui in quelle scene bollenti.
E adesso la Cassazione, come chiesto dalla procura generale, nel rigettare il ricorso ha messo in cassaforte l’affermazione di colpevolezza nei confronti di un fotografo amatoriale che poi s’è ritrovato nei guai, in grossi guai, per quel presunto ricatto ai due attori hard per diletto.
Il «no» della Suprema Corte, adesso, ha blindato la condanna a 5 anni e 6 mesi di reclusione a carico del quarantasettenne Dario Giordano, finito alla sbarra per estorsione e tentata estorsione.
Reati che si sono consumati, per i magistrati, nei confronti dell’impiegato e sindacalista sessantaquattrenne M.G. e una sua collega di lavoro, la cinquantanovenne M.L. (assistiti dagli avvocati Alberto Fiore e Walter Tesauro) che si sono costituiti parti civili.
Ed a loro, già in primo grado, è stato riconosciuto il diritto ad un risarcimento dei danni che, sull’onda del pronunciamento degli “ermellini”, dovrà sborsare l’imputato (poi difeso dall'avvocato Sinuè Curcuraci) secondo l’entità che dovrà stabilire il giudice civile.
Era il giugno dell’ormai lontano 2005 quando per Giordano è scattata la trappola della polizia in viale Regina Margherita dopo avere intascato soldi. Duecento euro in particolare. Quella somma, però, secondo le presunte vittime d’estorsione, sarebbe stata l’ultima tranche richiesta. Già, perché in precedenza il fotografo avrebbe reclamato prima 700 e poi 500 euro. Si, perché secondo la tesi accusatoria avrebbe tentato di spillare quattrini ai due minacciandoli, caso contrario, di divulgare quel film per loro assolutamente «compromettente». Questo, almeno, secondo quanto è emerso già dalla prima ricostruzione degli inquirenti.
Ma questa è la fase ultima della storia, quand’era già finita nel mirino della polizia sull’onda della denuncia presentata dalla coppia – coppia solo di “pellicola” – che sarebbe stata ricattata.
A monte v’è la registrazione di quel filmino più che osé. Girato un po’ nella casa di campagna dell'imputato e un po’ negli uffici di un sindacato, ma che secondo le parti civili sarebbe stato destinato a rimanere segreto. Ma così non sarebbe stato. Perché dopo un po’ di tempo – è quanto venuto fuori dal teorema accusatorio – l’operatore amatoriale avrebbe preteso soldi per tenere per sé quel materiale scottante. La prima richiesta di soldi, la donna l’avrebbe ricevuta attraverso un sms inviato al suo cellulare.
Fin qui l’accusa. Perché lui, il regista per hobby, s’è invece difeso raccontando tutt’altra verità. Sconfessando, con decisione e forza, la teoria della costrizione. Sostenendo la tesi che non voleva estorcere un solo euro ma, piuttosto, avrebbe solo reclamato il suo compenso per il lavoro svolto. «Da accordi presi con loro – s’è sempre difeso l’accusato – avrei dovuto produrre quattro copie professionali di quel film. Ma per quasi un anno, visto che nessuno dei due s’era più fatto vivo, ho tentato di mettermi in contatto con loro, ma al telefono non rispondeva nessuno». E poi l’imputato ha ammesso di avere inviato alla coppia sms con richieste di soldi. «Ma non perché volevo estorcere loro soldi – ha rimarcato – quanto piuttosto perché dovevano ripagarmi delle spese che avevo sostenuto, del mio lavoro e di un altro operatore che mi ha aiutato per il montaggio. Tutto qui».
Ma nel momento in cui i due “attori” hanno denunciato quella storia in questura, è stata preparata la trappola. Fingendo di volere cedere a quelle richieste è stato fissato un appuntamento con il fotografo, mentre gli agenti hanno fotocopiato le banconote. Le stesse che poi, al momento in cui l’uomo è stato bloccato avrebbe avuto in tasca. E l’impianto accusatorio a suo carico ha retto in tutti e tre i gradi del giudizio. (Vincenzo Falci, Giornale di Sicilia)