Pubblicato il: 26/06/2020 alle 12:22
«Nel pieno del processo sulla trattativa, Totò Riina è inferocito. Si lamenta di Matteo Messina Denaro, che definisce un ragazzino che si è messo a prendere soldi, si interessa di sé stesso e non delle questioni. 'Se ci fosse suo padre, che era un bravo cristiano che mi dava a suo figlio per farne quello che dovevo fare…'». A ricostruire il rapporto tra il capo dei capi di Cosa nostra e il superlatitante è il pm Gabriele Paci nella requisitoria per il processo, a Caltanissetta, a Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e via D’Amelio.
«Brusca fornisce una indicazione fondamentale – ha continuato – Siamo alla fine del '92. Riina gli fa una confidenza e gli dice 'Guarda che se mi succede qualcosa, i picciotti Giuseppe Graviano e Matteo sanno tuttò».
Paci ha sottolineato più volte che Riina parlava di Messina Denaro come «la luce dei suoi occhi» e ha concluso: «Il padre lo aveva messo nelle sue mani. 'E io l’ho fatto buonò, diceva Riina, ricordando questo mafioso che gli era cresciuto sulle ginocchia». (ANSA).