(Vincenzo Falci, Giornale di Sicilia) Negata la revisione del processo per il figlicida di Riesi. Ma non è ancora detta l’ultima parola. Sì, perché dopo il «no» della corte d’Assise d’Appello di Catania, l’istanza va ora in Cassazione. A poco meno di cinque anni dal verdetto della Suprema Corte che ha blindato la condanna all’ergastolo per l’imprenditore settantaduenne di Riesi, Stefano Di Francesco ritenuto colpevole del delitto del figlio, il trentunenne Piero Di Francesco, si riapre una vicenda che dal punto di vista processuale sembrava già in ghiaccio da anni. Sì perché sarebbe saltata pure fuori un’informativa secondo cui il delitto sarebbe stato commesso dalla mafia di Riesi per punire il padre che non avrebbe voluto piegarsi al pizzo.
Nel dicembre del 2018 La Cassazione ha confermato il «fine pena mai» a carico di Di Francesco senior (adesso assistito dall’avvocato Vincenzo Vitello), accusato di avere prima colpito il figlio e poi, credendolo morto, ne avrebbe bruciato il corpo all’interno di un’auto. Ricostruzione, agghiacciante, che il padre ha sempre respinto a muso duro. Però la sua tesi a discolpa s’è infranta contro i tre gradi del giudizio che lo hanno inchiodato sulle sue responsabilità.
Ma il nuovo difensore ha messo pure in discussione il lasso temporale in cui tutto si sarebbe consumato etichettandolo come «inconsistente». Per la difesa è impossibile che in una manciata di minuti, cinque in tutto, Di Francesco abbia potuto uccidere il figlio, andare via e tornare sul luogo del delitto. Tutto sarebbe racchiuso tra le 11.19 e le 11.24 del 9 gennaio 2012. In cinque minuti, per l’accusa, lo avrebbe prima ucciso, poi sarebbe andato via dall’azienda di famiglia perché la moglie lo ha incontrato alle porte del paese e sarebbe subito tornato sul luogo del delitto.
Secondo la ricostruzione dell’accusa, il giovane sarebbe stato prima colpito alla testa dal padre con qualche oggetto e poi, credendolo morto, lo avrebbe dato alle fiamme infilando il corpo in una vecchia auto parcheggiata nel piazzale dell’azienda di famiglia, in contrada «Bannuto», nelle campagne di Riesi A dividere padre e figlio, fino all’irrimediabile, sarebbero stati – per i magistrati – contrasti per la conduzione della loro azienda, la «Tecnoambiente», che operava nel settore dello smaltimento. Ad incastrare poi il genitore, arrestato nel luglio del 2014, due anni e mezzo dopo la morte del figlio, è stata quella che per l’accusa è stata una inconsapevole confessione resa sulla sua tomba.