Giuseppe Di Blasi
Se i giudici della Cassazione hanno rigettato il ricorso dei familiari di un detenuto morto suicida in cella al carcere “Malaspina”, ritenendo quindi non omissivo il comportamento dei medici penitenziari di Messina dove fu recluso per un periodo, di contro i figli e i fratelli di Giuseppe Di Blasi non si arrendono. Il caso dell'operaio del canile impiccatosi il 27 dicembre del 2011, infatti, approderà alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Il difensore della famiglia Di Blasi, l'avvocato Massimiliano Bellini, ha annunciato di voler ricorrere all'organismo giudiziario europeo per chiedere di accertare la responsabilità di quanti ebbero in cura il detenuto di 46 anni.
Il caso è diventato un braccio di ferro giudiziario estenuante. Prima l'archiviazione del procedimento penale da parte del Gip di Caltanissetta, quindi l'opposizione dei familiari e la riapertura di una indagine trasmessa per competenza territoriale al Tribunale di Messina, in quanto per un periodo Giuseppe Di Blasi venne recluso e curato all'ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto.
L'avvocato Massimiliano BelliniSecondo l'esposto presentato dall'avvocato Bellini per conto dei familiari dell'operaio impiccatosi, il suicidio poteva essere evitato se Di Blasi avesse ricevuto l’adeguata assistenza medica e psicologica considerato che per ben quattro volte aveva tentato di uccidersi, tra cui il giorno precedente al ritrovamento del suo cadavere penzoloni dalle sbarre della cella. E adesso la Suprema Corte, nel rigettare l'opposizione contro la decisione del giudice di archiviare il procedimento, ha ritenuto che i disturbi psichiatrici manifestati più volte dal detenuto erano stati opportunamente trattati e monitorati, inizialmente con la sorveglianza a vista da parte della Polizia penitenziaria e successivamente con la grande sorveglianza.
Ma i familiari di Giuseppe Di Blasi non si fermano. Ecco perché stanno presentato un corposo ricorso alla Corte di giustizia europea. “Ai giudici di Strasburgo chiederemo quella Giustizia che lo Stato italiano ha negato – ha spiegato il penalista nisseno – sempre più convinti che l'autorità giudiziaria non ha adempiuto agli obblighi positivi di tutelare la vita del detenuto”.