Pubblicato il: 20/02/2014 alle 11:16
Le statistiche nazionali registrano un calo nel numero dei matrimoni e un incremento delle coppie che decidono di andare a convivere. L’evoluzione del concetto del nucleo familiare ha, inevitabilmente, ripercussioni sostanziali anche nelle abitudini e nei costumi sociali.
Ad oggi, una coppia che sceglie di sposarsi non parla più di “dote” o di beni – materiali o economici – che devono essere presentati al momento del matrimonio.
La tradizione ormai caduta in disuso, però, aveva regole ben precise e, le donne che non potevano beneficiare almeno una piccola dote non era considerata “maritabile” . Sarà questo l’argomento del convegno, organizzato per domani dalla Fidapa, che sarà tenuto dalla Professoressa Rosanna Zaffuto.
“La dote nuziale e il decoro della donna siciliana” non è un titolo scelto a caso ma una questione profonda che poteva portare forti ripercussioni. “Tante ragazze del ceto mezzano – spiega la relatrice – entravano in convento o rimanevano “zitelle di casa” perché il patrimonio familiare consentiva la costituzione di una dote degna solo alla figlia maggiore”.
La dote è definita come “l'insieme dei beni che la famiglia di una sposa conferisce allo sposo con il matrimonio”. La donna, considerata inferiore e incapace di contribuire all’economia familiare (solo all’uomo era consentito di lavorare e portare soldi a casa) e, dunque, doveva compensare la carenza al momento del matrimonio.
Ogni famiglia concordava i beni in base alle proprie ricchezze economiche e, da quelle “poverissime” in cui (citati in atti notarili) si portava solo “mezza scala” che un padre aveva diviso tra due figlie femmine a quelle “ingenitssime” la Zaffuto cita “sono migliaia di atti dotali di estremo interesse per la storia del costume e della moda, per la storia del linguaggio e per la cultura materiale”.
Il primo elemento era sempre il letto (con eventuali tavole, trispi, materassi, cortinnaggi, cuscini), poi la biancheria (della casa e personale della sposa) poi i gioielli e il danaro liquido, ed in ultimo, quando era possibile, le proprietà immobili – una casa, un pezzetto di terreno, un orto.
Gli accordi “prematrimoniali”, così come quelli odierni predisposti da un avvocato e firmati davanti un notaio, dovevano essere ben chiari nel caso in cui una donna rimanesse vedova o fosse ripudiata. Le famiglie di origine – spiega Rosanna Zaffuto – stabilivano se la dote dovesse essere inclusa nel patrimonio familiare, diventando di proprietà della famiglia del marito (matrimonio latino), o se invece rimanesse esclusa – seppur gestita dall’uomo – e recuperabile dalla donna in caso di cattiva sorte (matrimonio greco). “E’ questo il caso di Cesarea Lancia – continua l’esperta – che portò l’intero territorio di Caltanissetta in dote a Giovanni di Randazzo, fratello del re di Sicilia, nella seconda metà del Trecento. Il marito morì di peste e Cesarea, che aveva stipulato il matrimonio more graecorum, riebbe i possedimenti che le aveva assegnato suo padre e venne a vivere a Caltanissetta. Lo stesso beneficio di cui godette Donna Aloysia Moncada”.
L’appuntamento è per venerdì 21 febbraio alle ore 18.00 a Palazzo Moncada, Largo Barile – 93100 Caltanissetta