Pubblicato il: 10/04/2023 alle 09:16
(di Donata Calabrese, Giornale di Sicilia) In via D’Amelio, poco dopo l’esplosione della Fiat 126 imbottita di tritolo, non c’erano solo fumo e rottami, non c’erano solo i corpi del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della scorta, ma probabilmente anche quattro o cinque uomini in giacca e cravatta, appartenenti ai servizi segreti. La loro presenza tuttavia rimane un mistero perché nel corso dei processi, anche se ne hanno parlato due poliziotti, intervenuti sul luogo della strage, per il Tribunale si tratta di un aspetto che non è stato possibile approfondire. È uno dei particolari che emerge dalle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sull’attentato del 19 luglio 1992, a Palermo.
Un sovrintendente in servizio alla squadra mobile del capoluogo della Sicilia ha riferito di essere arrivato in via D’Amelio una decina di minuti dopo la deflagrazione. Il poliziotto, nel corso del «Borsellino quater», ha raccontato di avere visto Antonio Vullo, l’unico superstite fra gli appartenenti alla scorta di Paolo Borsellino, in evidente stato di shock emotivo e psicologico, seduto sul marciapiede, con la testa fra le mani.
«Mentre le ambulanze prestavano i soccorsi ai feriti – si legge nelle motivazioni della sentenza – ed i vigili del fuoco spegnevano i focolai d’incendio, anche sulla Croma blindata del magistrato, il poliziotto della squadra mobile notava quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: "Uscìi da… da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti 'sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ 'u stesso abito, una cosa meravigliosa”, “proprio senza una goccia di sudore"». Si trattava di «gente di Roma», appartenenti ai servizi segreti; infatti, alcuni erano conosciuti di vista (anche se non davano alcuna confidenza) e, inoltre, venivano notati a Palermo, presso gli uffici del dirigente della squadra mobile, Arnaldo La Barbera, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci».
Una circostanza confermata da un altro poliziotto, in servizio alla sezione volanti della questura di Palermo. L'agente ha notato nei pressi della Croma blindata di Paolo Borsellino un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa. Alla richiesta di chiarimenti sulla sua presenza lì, l’uomo si qualificava come appartenente ai “Servizi”, mostrando anche un tesserino di riconoscimento: sebbene il ricordo del teste – sottolinea il tribunale – sul punto specifico non sia affatto nitido, vi era persino un veloce scambio di battute fra i due sulla borsa di Paolo Borsellino. Infatti, l’agente dei servizi segreti chiedeva se c’era la borsa del magistrato dentro l’auto blindata, oppure (addirittura) si giustificava per il fatto che aveva detta borsa in mano».
Il dibattimento sul depistaggio, scrivono i giudici del tribunale di Caltanissetta, «non ha consentito di trarre argomenti che possano servire all’approfondimento di tale aspetto». Il sovrintendente è stato chiamato a deporre nuovamente nel corso del processo sul depistaggio e ha riferito di avere notato quelle persone dopo un quarto d’ora, venti minuti dal suo arrivo ma non aveva la certezza che si trattasse di uomini appartenenti ai servizi segreti. Inoltre, i due agenti non hanno redatto alcuna relazione di servizio né tantomeno hanno segnalato «a chicchessia tali presenze».
Per il tribunale, «non ci si può non porre il problema di come tale vicenda dimostri plasticamente tutti i rischi connessi al provare fatti per testimoni in un contesto nel quale il decorso di così tanti anni rende – nella migliore delle ipotesi – imprecisi e suggestionabili i ricordi». I giudici hanno invece messo nero su bianco che la notizia sulla presenza in via D’Amelio, dopo l’esplosione, dell’ex numero 2 del Sisde Bruno Contrada si è rivelata falsa. «A vantaggio di chi? Si ritiene – precisa il tribunale – che se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage (che si aggiungono a quella mafiosa) di via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza». Ad oggi non è stata ancora individuata la persona fisica che portò via l’agenda, ma secondo i magistrati si tratta di qualcuno che ricopriva una carica istituzionale, che gli ha permesso di agire indisturbato.