Pubblicato il: 01/10/2022 alle 21:00
La libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero con ogni mezzo, garantita a tutti dalla nostra Carta fondamentale all’art. 21, costituisce uno dei principi cardine di ogni democrazia che si rispetti, al punto da poter essere considerata unità di misura della democraticità di un ordinamento nazionale. Come ogni diritto, tuttavia, essa soggiace ai limiti di tutela e rispetto degli altri diritti e libertà di pari rango costituzionale e, pertanto, cessa là dove l’esercizio della libera manifestazione del pensiero leda qualcuno di tali diritti e libertà costituzionalmente apprezzabili, prime fra tutte il decoro e la dignità della persona umana. Quando, poi, la libera espressione del proprio pensiero si esplica nell’ambito del rapporto e dei luoghi di lavoro (art. 1, Stat. Lav.), e diventa critica mossa nei confronti delle scelte del datore di lavoro, la sua tutela sopporta non solo il limite del rispetto dei diritti della personalità, e dunque del decoro e della reputazione dell’impresa, a sua volta specificazioni della libertà di iniziativa economica, – che possono essere sacrificati solo se la critica persegue un interesse superiore collettivo – ma anche quelli che dottrina e giurisprudenza hanno definito i c.d limiti interni al diritto di critica del lavoratore. Tuttavia non può essere licenziato chi critica aspramente l’azienda, incitando i colleghi a non farsi mettere i piedi in testa. Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con una ordinanza, ha respinto il ricorso di una grande società che aveva contestato alla lavoratrice di aver detto durante un corso, “non sottostate ai comportamenti inquisitori del datore”. Per gli Ermellini la donna ha esercitato il suo legittimo diritto di critica. La sezione lavoro ha respinto tutti e sei i motivi con i quali la difesa ha tentato di smontare la decisione con la quale la Corte d’Appello ha ritenuto illegittima l’interruzione del rapporto. Per i giudici di legittimità, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che “, la giusta causa di licenziamento è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici.”