Questa mattina in primo piano su Livesicilia.it Riccardo Lo Verso parla delle indagini della procura nissena su “antimafia” e Antonello Montante:
Caltanissetta – Èuna questione di prefissi. Se abbondano vuol dire che i conti non tornano. Come nel caso dell'antimafia. Basta guardare cosa accade alla Procura di Caltanissetta, dove ormai lavora in servizio permanente ed effettivo la Direzione distrettuale anti-antimafia. C'è un anti di troppo. Imposture, comitati di affari e carriere sono proliferati sotto l'ombrello della lotta a Cosa nostra. E ora sul campo restano le macerie. Nel novembre 1991 nacquero le procure distrettuali antimafia, coordinate da quella nazionale. Ventisei pool di magistrati specializzati nelle indagini sulla criminalità organizzata. Una per ciascun distretto di Corte d'appello. L'attuale lavoro investigativo si muove su due linee. La prima è quella che tiene sotto osservazione i mafiosi che escono dal carcere, ancor più di quelli che vi finiscono dentro.La seconda linea investigativa guarda invece – ed è la più interessante – a quella sfilza di professionisti che hanno consentito alle storiche famiglie mafiose di schermare patrimoni che nel frattempo puzzano sempre meno di mafia. Ai magistrati di Caltanissetta è toccato sperimentarne una terza di via, quella dell'anti-antimafia. I segnali c'erano stati e anche fragorosi. Per una volta, però, non occorre rinverdire il dibattito sui professionisti dell'antimafia di sciasciana memoria. Basta guardarsi attorno, attenersi agli atti giudiziari, pur nella presunzione di non colpevolezza che vale per i mafiosi come per gli antimafiosi. I clan Di Gristina, Madonia ed Emanuello – per citare solo alcuni dei potentati mafiosi del Nisseno – sono stati decimati dagli arresti. I magistrati, oggi guidati da Amedeo Bertone, sono impegnati a smascherare chi – e se – abbia sfruttato la divisa dell'antimafia con il solo scopo di confondere le acque. I cattivi si sarebbero vestiti da buoni. O addirittura, fanno delle toga un vessillo per l'impunità.Caltanissetta si indaga su Antonello Montante. Nessuno, anche se ci sarà sempre qualcuno pronto a iscriversi al partito dell'io l'avevo detto, avrebbe potuto mai dubitare sulla bontà della sua azione antimafia. Su di lui era persino caduta la scelta del governo per guidare l'Agenzia dei beni confiscati ai boss o agli imprenditori in combutta con i mafiosi. Ed invece è arrivata l'indagine per concorso esterno in associazione mafiosa. Montante si deve difendere dalle dichiarazioni di alcuni pentiti e dalle bordate di Marco Venturi, altro storico esponente degli industriali che si è scagliato contro, così lo ha definito, il “grande inganno della rivoluzione”. Per la verità l'indagine va avanti da un po'. Dopo l'avviso di garanzia e le perquisizioni, sono trascorsi mesi di silenzio, dovuto anche alla nomina del nuovo procuratore che, una volta insediatosi, avrà di certo voluto conoscere ogni passaggio della delicata indagine.Il presidente degli industriali siciliani e delegato nazionale per la legalità è stato uno degli artefici della svolta etica di Confindustria. Non c'era convegno in cui non si registrasse la presenza del corteggiatissimo Montante assieme a prefetti, questori, magistrati e ufficiali delle forze dell'ordine. Molti contatti illustri – era impossibile che non ne avesse avuto con dei giudici – sono finiti nell'archivio di Montante che i pm nisseni hanno trasmesso per competenza a Catania. Forse inaspettata è stata la scoperta della sua maniacale abitudine di scrivere ogni cosa, tanto che qualcuno si è spinto a utilizzare per definire i suoi file la parola dossier che rimanda a sinistre valutazioni. Nulla di penalmente rilevante per stessa ammissione di chi indaga. La Procura di Catania ha archiviato il fascicolo. Il contenuto, però, è finito sul tavolo del Consiglio superiore della magistratura con i nomi di una decina di giudici. L'industriale annotava tutto, dal più istituzionale degli appuntamenti alle segnalazioni per un posto di lavoro. Negli ampi stralci degli appunti pubblicati sulla stampa comparivano i nomi, tra gli altri, di magistrati dell'antimafia che indossa la toga. Come Roberto Scarpinato che a Montante, nel maggio 2012, avrebbe consegnato la “composizione Csm con i suoi scritti per nuovo incarico… Procura generale Palermo Dna”. Scarpinato era allora procuratore generale a Caltanissetta, oggi lo è a Palermo. E c'era pure il nome di Sergio Lari, che da capo dei pm nisseni, assieme all'aggiunto Nico Gozzo, aveva avviato l'inchiesta su Montante. Sul conto dell'attuale pg nisseno l'imprenditore aveva conservato il curriculum di un agente della sua scorta deceduto e un appunto con il riferimento ad un “biglietto Lari per Roma Chianciano” in occasione di un convegno.Per anni Montante è stato il simbolo di un nuovo modo di fare impresa senza piegarsi o, peggio, strizzare l'occhio ai mafiosi. Ora attende di conoscere la sua sorte giudiziaria che passa, anche e soprattutto, dalla valutazione dell'attendibilità di quattro pentiti, i quali sostengono che la sua scalata imprenditoriale sia macchiata dal peccato originale del legame con i mafiosi di Serradifalco, suo paese natio. Montante, dal canto suo, ha sempre considerato le accuse dei collaboratori come la vendetta di persone che lui stesso ha denunciato. Si attendono notizie, magari a breve visto che a Caltanissetta hanno “sbloccato” l'inchiesta sul sistema Saguto. Se sul caso Montante si gioca la credibilità di una parte, seppure autorevole, del recente movimento antimafia, con lo scandalo che ha picconato le Misure di prevenzione è l'Antimafia stessa a giocarsi la faccia. I finanziari della Polizia tributaria hanno consegnato alle cronache uno spaccato indecente di consulenze, incarichi e favori che avrebbero risposto a logiche di arricchimento. La competenza e la buona gestione della cosa pubblica sacrificate sull'altare degli interessi personali; le amministrazioni giudiziarie trasformate in un cavallo di Troia per entrare in un sistema potere, parallelo e molto redditizio. I danni provocati vanno oltre le singole posizioni di Silvana Saguto e degli altri indagati che avranno tempo e modo di difendersi. Èla giustizia che ne esce con le ossa rotte. Nell'immaginario collettivo dilaga la comprensibile convinzione che ogni sequestro sia motivato dall'avidità di alcuni piuttosto che giustificato dalla necessità di allontanare la presenza mafiosa. Scricchiolano le basi di un modello che appariva granitico nella sua capacità di colpire gli interessi di Cosa nostra. Un modello che affonda le radici nella legge Rognoni – La Torre del 1982. Sulla base del principio della pericolosità sociale venivano introdotte le misure patrimoniali del sequestro e della confisca. Nel mirino finiva la cosiddetta imprenditoria mafiosa, senza contare che spesso la figura di boss e imprenditore coincidevano. E tutto il mondo ha guardato all'efficienza del modello italiano.Su Live Sicilia si parla anche del giudice Tona… (Fonte Riccardo Lo Verso, Livesicilia.itL'anti antimafia di Caltanissetta Storture della lotta a Cosa nostra)