Pubblicato il: 19/06/2024 alle 08:01
Prima baronia, poi comune, San Cataldo fu fondata del principe Nicolò Galletti nel 1607, su concessione (licentia populandi) del re Filippo III. Nel 1623 San Cataldo contava 722 abitanti; nel 1651 erano circa 1.607. Nel 1699, diciotto anni dopo, fonti ecclesiastiche riportano una popolazione di 2.490 abitanti. Nel 1699 si arrivò a 3.066 abitanti. Nel 1921 si contavano 23.486 abitanti. Oggi di abitanti ne conta poco più di 20.000. Nel corso degli anni San Cataldo ha subito parecchi rimaneggiamenti dal punto di vista architettonico e urbanistico, al punto che oggi appare come una città nella quale prevalgono costruzioni recenti e pochissime costruzioni possono vantare una valenza storica. Tra le poche testimonianze culturali del passato sopravvissute alla modifiche urbanistiche e alla speculazione edilizia troviamo chiese e complessi religiosi.
Ma puntiamo l’attenzione all’oggi e, specificatamente, a una peculiare querelle politico-culturale che sta animando il dibattito cittadino. Il caso è ormai noto: nell’area di un’aiuola spartitraffico tra via Babbaurra, via Stesicoro e viale della Rinascita, esiste da dieci anni un monumento dedicato al Quarto Centenario della Fondazione di San Cataldo dal titolo “Emblema”, realizzato in pietra di Sabucina e donato dall’artista Calogero Barba. Nella medesima aiuola, adesso modificata, da alcuni giorni campeggia un’altra opera plastica. A seguito della richiesta dall’associazione ABzero, accolta dall’attuale Giunta comunale diretta dal sindaco Giocchino Comparato, è stata dunque realizzata e collocata una sorta di scultura pop dedicata ai donatori di sangue. Un manufatto dal linguaggio diverso per concetto, tipologia, soluzione formale, dimensioni e materiali che, a detta dell’artista Calogero Barba, è in evidente e provocatorio contrasto con l’opera scultorea “Emblema”. La nuova opera disegna la forma di un cuore, è di dimensioni maggiori rispetto alla scultura di Barba e si impone anche per l’acceso colore rosso che la connota. Insomma: Calogero Barba l’ha presa malissimo, presentando ricorso al Tar per difendere il suo lavoro d’artista e la sua reputazione insieme ai relativi diritti d’autore. E a San Cataldo, non si parla d’altro.
Che dire? La querelle sancataldese è interessante perché pone all’attenzione dell’opinione pubblica, e forse anche dei politici e degli amministratori, diverse questioni legate allo conoscenza, tutela e valorizzazione dello spazio pubblico di una città. Di certo, pressappochismo, superficialità se non ignoranza caratterizzano troppo spesso le scelte, le decisioni che riguardano la città, i suoi luoghi e i suoi simboli. San Cataldo, in particolare, nel corso degli ultimi 150 anni della sua storia ha subito demolizioni, rimozioni, cancellazioni davvero rilevanti. Ad esempio, non esistono più luoghi storici e palazzi come l’antico Municipio, abbattuto nel 1957, o Palazzo Galletti, in buona parte demolito per ospitare una banca, così come non esiste più la casa natale di Marianna Amico Roxas in Corso Vittorio Emanuele; non esiste più l’antico abbeveratoio di largo Bevaio, oggi piazza Risorgimento, così come non esiste più l’antica scalinata di via Cavour. Luoghi, monumenti, giardini, palazzi che lo smania del “nuovo” ha cancellato per sempre dalla scena urbana. Di questo mi pare si parli, si discuta poco.
La città, ad oggi, non possiede un Museo Civico: un luogo in cui custodire e rappresentare la sua storia, la sua evoluzione. I suoi successi e le sue sconfitte. Un luogo importante per la ricerca, l’educazione e la formazione. Un luogo imprescindibile per la messa a fuoco dell’identità collettiva, per consolidare, accrescere la consapevolezza dei cittadini.
Ecco dunque che la querelle sulle due diverse opere plastiche collocate nell’aiuola di via Babbaurra può persino accendere un autentico interesse, un vero dibattito – laico, civile – sulla qualità o meno dello spazio urbano e sulla sua possibile riqualificazione; sul senso, o meno, di operazioni e progetti di modifica, di trasformazione. Lontano, auspicabilmente, dalle consuete, inutili strumentalizzazioni.
Prof. Leandro Janni, presidente regionale di Italia Nostra Sicilia
veramente uno è uno stemma pubblicitario di un associazione.. Possibile che non vedete? Già vero moderati di strapazzo, che non vedono, non sentono e nemmeno e non parlano.