Pubblicato il: 13/07/2017 alle 11:31
E’ l’era dell’hate speech (l’odio sui social network), dei talk show chiassosi, dei commenti odiosi. Liti. Liti ovunque, al bar per la squadra del cuore, su facebook per affermare la propria opinione e screditare quella altrui, tra ex fidanzati, collaboratori, parenti, amici diventati nemici. Il litigio sembra essere diventato un registro comunicativo unico per affrontare questioni legate alle più disparate sfere della società e della vita dell’individuo o per comunicare le proprie antipatie che devono essere rese pubbliche a tutti i costi. Perché? Probabilmente per creare un consenso. Se dico a tutti che quella persona è antipatica divento più simpatico io. Se faccio scoprire al mondo che l’animo altrui è torbido divento più buono io. Se il mio concorrente è stupido sono più intelligente io. Un automatismo che per certuni evidentemente è scontato. Ma è veramente così? Egocentrismo e litigiosità. Un sistema facile, immediato, per suscitare subito pareri, emozioni, rabbia, odio, simpatia, antipatia. Ma alla fine c’è qualcuno che perde? Sì. A perdere sono l’eleganza, la dignità, lo stile. Quelli che non dovrebbe perdere mai di vista chi ha un ruolo importante nella società. E il giornalismo ha questo ruolo importante? Sì. Perché per chi crede in questo lavoro il giornalismo è informare, cercare la notizia, cercare di aderire quanto più possibile alla verità dei fatti, cercare di dare dignità e decoro ad una professione spesso attaccata e, qualche volta, svilita da chi la pratica. Il problema è comprendere se si vuole ricoprire un ruolo importante nella società, che in questo caso è quello di informare correttamente il pubblico, il che implica una grande responsabilità, o se si vuole disorientare il pubblico con inutili schermaglie. Ed evidentemente il confine tra informare e prendere consensi – una volta era un problema dei soli politici – oggi è molto labile.
Il direttore responsabile, Rita Cinardi