Pubblicato il: 08/10/2014 alle 08:23
Libertà e segregazione. Due “stati d’animo” che non si limitano a connotare uno spazio fisico ma una condizione vissuta dall’individuo. Si può partire da questa considerazione per capire “Anime nude… ammucciate”, la nuova fatica teatrale interamente scritta e diretta da Stefania Zigarella.
Un testo impegnato, volutamente incentrato su tematiche forti, scomode per lo spettatore che, troppo spesso, sceglie la condizione di visitatore distratto, osservatore inerme che non si vorrebbe confondere con chi ha perso il “lume” della ragione. E, invece, già prima di entrare all’istituto Testasecca di Caltanissetta, luogo dove è messa in scena la rappresentazione e al quale verranno destinati i proventi, lo spettatore diventa un protagonista involontario di questo dramma che ricalca, a grandi linee, la realtà che ogni giorno, possiamo osservare attorno a noi. “Il teatro deve far riflettere” aveva anticipato Zigarella e la sua promessa è stata ampiamente mantenuta riuscendo a mostrare come non basta far indossare a un individuo un abito “convenzionalmente accettato” per farlo diventare un membro impeccabile della società.
Uno spettacolo messo in scena lontano da un palcoscenico di un teatro perché il dolore raccontato dai personaggi non è soltanto una finzione scenica, una farsa portata per far passare qualche ora spensierata ma una denuncia alla società che non ha abbastanza coraggio per tuffarsi dentro i problemi, affrontarli e trovare una soluzione adeguata. Un “progetto”, come la regista stessa lo ha definito, portato avanti con l’associazione “Salto nel vuoto” che affronta la contestata tematica della chiusura dei manicomi. La sorte di tutti quei malati non è cambiata uscendo fuori dai quei luoghi lugubri dove vivevano devastati da psicofarmaci ed elettroshock; queste persone non hanno avuto altra scelta che riversarsi in un mondo che non li riconosce, al quale non appartengono e, soprattutto, al quale non vogliono appartenere. L’adeguarsi ai dettami della società, infatti, diventa una gabbia che impedisce di esprimere la propria unicità; la chiusura dei manicomi, sotto questo aspetto, infatti, non rende libere le persone ma, ancora una volta, sceglie di non aiutarle e le riversa, semplicemente, in uno spazio più ampio, nelle città e sottopone i malati agli sguardi – gratuiti e non richiesti – di ostilità, compassione, disprezzo, paura. Una riflessione incentrata sulla condizione umana e sul finto buonismo di chi si ritiene indulgente finché non si trova di fronte alla dura realtà, alla persona sporca, alla persona che, con una mano tremante, gli rivolge anche solo una parola.
Il conformismo della “normalità”, fatto di regole e consuetudini dove il “vestire bene”, il “lavarsi” non si addice a tutte quelle persone che, invece, guardano la vita con occhi diversi e trovano soluzioni “inusuali” ai loro problemi. Dietro quelle frasi apparentemente senza senso si nasconde una profonda critica della società, del pensiero comune e di quella superficialità con la quale troppo spesso l’individuo osserva il mondo che lo circonda e le persone che ne fanno parte.
Esperienze forti, toccanti, raccontate attraverso i monologhi incalzanti, musiche armoniose, fragore di mani o piedi e la mimica di ciascun personaggio che, anche solo attraverso occhi languidi o movimenti repentini fa trasparire il suo dolore incompreso.
Monologhi e mai dialoghi perché, nonostante la stretta vicinanza tra l’attore e il pubblico, esiste una impenetrabile barriera tra i due mondi, quella del visitatore, specchio della società esterna, e quella del malato. Molto bravi gli attori che, pur essendo dilettanti, sono riusciti a calarsi nel personaggio, replicare tic, atteggiamenti nervosi o ripetitivi. E’ questa la realtà di quelle persone che si presentano al mondo come “anime nude”, individui che, rifiutando le convenzioni conformistiche della società scelgono di restare “ammucciate” finchè non si sentono libere di uscire allo scoperto senza che nessuno li possa giudicare.
Credere, pensare, essere: verbi che, all’interno dei manicomi, hanno una differenza quasi abissale. Nessuno è escluso e tutti possono finire dentro questo vortice in cui, ad un certo punto, scatta una molla nel cervello e “si rompe qualcosa” che non si può più riaggiustare. Sì, perché la testa non è come una gamba, un braccio o un organo, perché nella testa quel che smette di funzionare non si ricostruisce più.
Cosa cercano allora queste “anime”? Un luogo dove poter essere sé stessi, liberi di girare con un calzino e un piede nudo o senza trucco, un luogo ancora sconosciuto dato che, la legge Basaglia, secondo la pungente critica dell’autrice, ha solo cambiato il nome a quel luogo abbandonato chiamato “manicomio”. Ed ecco che i paroloni incomprensibili non arrivano più dalle diagnosi dei medici ma dal pressapochismo delle persone che vogliono solo assopire i cervelli di queste persone rendendole docili, quasi inermi. Si è dimenticato, forse, che l’obiettivo da perseguire è quello di aiutare questi malati ad andare avanti, reintegrarsi nella società senza perdere quell’unicità che li contraddistingue e far riaccendere nei loro occhi e nelle loro anime la fiamma della voglia di vivere.
Liberi, dunque. Ma la vera questione è: da dove o da cosa?
Crediti:
Testo e Regia: Stefania Zigarella
Aiuto regia: Vanessa Terrana
In scena: Alessio Anzalone, Alessia Giarratano, Selene Gangitano, Simone Marcè, Daniele Spinelli, Andrea Moltisanti, Giuseppe Perriera, Federica Giarratano, Chiara Pirrone, Clarissa Lopiano, Francesco Cancilla e Morena Mangione.
Trucco: Chiara Pirrone
Grafica: Giuseppe Perriera
Scenografia:Alessia Giarratano