Pubblicato il: 26/08/2014 alle 08:45
Raffaele Lombardo costituiva “un ‘canale' diretto” per la “famiglia catanese di Cosa nostra” permettendole di “consolidare la sua egemonia” nei confronti di altri clan. Questo è quanto scrive il Gup Marina Rizza nelle motivazioni della sentenza, oltre 320 pagine, del 18 febbraio con la quale, a conclusione di un processo col rito abbreviato condizionato, ha condannato l'ex presidente della Regione Siciliana a 6 anni e 8 mesi di reclusione per concorso esterno all'associazione mafiosa.
In primo piano, i contatti tra Lombardo e l'avvocato Raffaele Bevilacqua, già condannato per mafia, responsabile della famiglia di Cosa nostra di Enna, del quale l'ex presidente ha ampiamente parlato nel corso del dibattimento il 6 marzo del 2013, sostenendo di averlo conosciuto dal 1986 “durante la mia prima legislatura” e col quale avrebbe avuto rapporti di scambio elettorale, in particolare tramite Salvatore Bonfirrato, ‘braccio destro' e intermediario di Bevilacqua. A queste si aggiungono le conoscenze, secondo quanto scrive il giudice nella sentenza, con Francesco la Rocca, “potente e carismatico leader della famiglia di Cosa nostra operante a Caltagirone”, rapporto questo che “trae origine anche dalla comune area territoriale nella quale entrambi vivevano”.
Il terzo esponente di rilievo al quale Lombardo sarebbe stato legato è Rosario Di Dio, ai vertici della famiglia mafiosa di Ramacca. E poi ci sarebbero stati rapporti con la famiglia Santapaola-Ercolano ed in particolare con Alfio Mirabile, Raimondo Maugeri e Vincenzo Aiello, rappresentante della famiglia catanese di Cosa nostra. Bevilacqua – secondo quanto scrive il giudice Rizza – aveva promesso a Lombardo di sostenere con il pacchetto di voti a sua disposizione il candidato appoggiato da Lombardo in occasioni delle elezioni provinciali di Enna del 25 maggio del 2003. Inoltre, si legge ancora, l'”imputato aveva chiesto al Di Dio di appoggiare il candidato sindaco da lui presentato svoltesi in ad Acireale il 24 maggio del 1998 e sempre al Di Dio il Lombardo si era rivolto, la notte presedente alle elezioni regionali tenutesi in Sicilia il 24 maggio del 2001 chiedendogli di sostituire in extremis il candidato da appoggiare con il consueto pacchetto di voti”. Vincenzo Aiello aveva offerto all'imputato il pacchetto di voti a sua disposzione in occasione delle elezioni regionali del 2008.
Per il giudice Rizza, l'ex governatore avrebbe dunque “determinato e rafforzato il proposito dei capi e dei partecipi della medesima associazione di acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici e di ostacolare l'esercizio del diritto di voto e di procurare voti per se' e per altri”. Secondo il gup, “appare provato che Lombardo abbia contribuito sistematicamente e consapevolmente, anche mediante le relazioni derivanti dalla sua pregressa militanza in più partiti politici, alle attività e al raggiungimento degli scopi criminali dell'associazione mafiosa per il controllo di appalti e servizi pubblici”. Il giudice ha anche ritenuto che l'ex presidente della Regione con la “promessa di attivarsi in favore dell'associazione mafiosa nell'adozione di scelte politiche e amministrative abbia intenzionalmente ingenerato, mantenuto e rafforzato il diffuso convincimento sulla sua completa disponibilità alle esigenze della consorteria”.
Uno dei passi più significativi delle motivazioni della sentenza è quello nel quale si legge che “Raffaele Lombardo costituiva un canale ‘diretto' per la famiglia catanese di Cosa nostra permettendole di consolidare la sua egemonia nei confronti di altri clan”.
“Il contributo più rilevante, concreto e effettivo prestato dal Lombardo all'associazione Santapaola-Ercolano – scrive il giudice – a ben vedere, consiste nella creazione di un complesso sistema organizzativo ed operativo di cui facevano parte, quali componenti parimenti necessari, gli imprenditori ‘amici' e gli esponenti della ‘famiglia', creando vantaggi di cui beneficiava anche l'associazione mafiosa”. Il ‘modus operandi', ritiene il gup, era sempre lo stesso: “acquistavano terreni agricoli nella prospettiva di ottenerne la variazione di destinazione urbanistica, e poi realizzare elevati guadagni con la plusvalenza” della proprietà.
Il giudice cita l'esempio di quattro casi: il piano di costruzione di alloggi per militari Usa di contrada Xirumi, non realizzato, e tre centri commerciali, dei quali uno solo è stato costruito. Per questo ‘metodo' il gup Marina Rizza cita il caso dell'editore Mario Ciancio, estraneo al procedimento, indagato per concorso esterno all'associazione mafiosa, per il quale la Procura ha chiesto per due volte l'archiviazione, rigettata dal gip. Il fascicolo è ancora pendente. Nella sentenza il gip rimanda alla Procura alcuni atti che l'ufficio diretto da Giovanni Salvi aveva allegato al processo Lombardo. Secondo il gup il progetto di due affari trattati anche dall'editore “annoverava tra i soci un soggetto vicino a Cosa nostra palermitana”.
Il modus operandi e la presenza di elementi vicini alla mafia, osserva il gup, fanno ritenere “con un elevato coefficiente di probabilità che lo stesso Ciancio fosse soggetto assai vicino al detto sodalizio” e in questo modo, scrive il gup, avrebbe quindi “apportato un contributo concreto, effettivo e duraturo alla ‘famiglia' catanese”.