Pubblicato il: 13/03/2024 alle 11:48
(di Vincenzo Falci, Giornale di Sicilia) Una limatura alla pena per omicidio. Ma è colpevole, ora come allora. Con una piccola riduzione rispetto a quanto, al termine della requisitoria, ha chiesto la procura generale monzese nei confronti di un riesino accusato di avere partecipato a un delitto, per anni rimasto irrisolto.
È di 22 anni di carcere – erano 24 in primo grado – la pena inflitta al quarantottenne di Riesi, Salvatore També (assistito dagli avvocati Mirko La Martina e Simona Giannetti) ritenuto coinvolto nell’uccisione del quarantaduenne di nazionalità albanese, Astrit Lamaj , sparito nel gennaio del 2013 e cui resti sono stati casualmente trovati nel gennaio di cinque anni fa, sei anni dopo la morte, in una villetta del Monzese.
Questo il verdetto emesso dalla corte d’Assise d’Appello di Monza che ha escluso l’aggravante del numero di partecipanti e il reato di furto dell’auto della vittima
E già in primo grado l’imputato è stato pure condannato a risarcire i danni al fratello dell’ucciso, da stabilire poi in un processo civile, oltre al pagamento di una provvisionale di 260 mila euro.
Nel primo passaggio in aula ha rischiato l’ergastolo. Pena sollecita dal pm ma che poi non gli è stata inflitta, perché non ha retto l’aggravante della premeditazione contestata dalla stessa procura.
Secondo l’impianto accusatorio, També sarebbe stato tra coloro che avrebbero immobilizzato l’albanese mentre lo strangolavano all’interno di un garage di Muggiò, appartenente a un boss risino poi uscito da questa inchiesta, perché la sua posizione è stata archiviata.
Ma non è tutto. Sì, perché lo stesso Tambè – titolare e socio della «Car parts srl» un negozio di autoricambi di via Italia, sempre a Muggiò – secondo gli inquirenti si sarebbe anche occupato di far sparire la Volkswagen Golf di Lamaj. Auto che sarebbe finita in un impianto di autodemolizioni a Desio gestito da un presunto appartenente alla ‘ndrangheta in Brianza. Accusa, questa, ora caduta.
Tutte contestazioni che la difesa ha sempre sconfessato sostenendo che al momento del delitto il suo assistito si trovava in un ufficio postale per il pagamento di un bollettino e il ritiro di una raccomandata. Ma – secondo la tesi accusatoria – le ricevute prodotte erano riferite a un’operazione eseguita nel pomeriggio mentre il delitto è stato collocato intorno alle dieci del mattino. Un alibi ritenuto non veritiero
A volere la morte dell’albanese, secondo i magistrati, sarebbe stata una donna di Riesi, negli anni novanta divenuta in Liguria regina delle televendite di gioielli su una tv privata. E si sarebbe rivolta al clan Cammarata di Riesi per fare uccidere Lamaj, perché non avrebbe accettato la fine della loro relazione sentimentale e perché lo avrebbe ritenuto l’autore di un grosso furto di gioielli messo a segno nella sua abitazione a Genova.