Oggi 6 dicembre ricorre il ventennale della morte di Antonino Caponnetto il magistrato del pool antimafia di Palermo, che guidò da novembre 1983 a marzo 1988. Caponnetto nacque a Caltanissetta il 5 settembre 1920 e morì a Firenze il 6 dicembre 2002. In suo ricordo, qualche anno fa, una stele è stata eretta in via Redentore nei pressi dell'abitazione in cui nacque. Il pool da lui diretto come magistrato fu un'inesorabile macchina investigativa e giudiziaria vi parteciparono anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a cui era legato da grande stima e amicizia e Caponnetto soffrì molto quando la mafia li uccise entrambi pochi anni dopo. La stessa mafia che nel 1983 aveva ucciso anche Rocco Chinnici e la sua scorta che di quel pool investigativo fu l'ideatore.
Questo gran lavoro portò, nel 1986, alla costituzione del primo maxi processo contro Cosa Nostra, la cui ordinanza del rinvio a giudizio constava di un milione di pagine di atti, tra cui le dichiarazioni di pentiti come Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. Il maxiprocesso si concluse con 19 ergastoli e un totale di 2665 anni di reclusione, condanne confermate poi dalla Cassazione. Caponnetto in seguito tornò a Firenze. Divenne celebre il suo amareggiato commento alle telecamere poco dopo la strage di via d'Amelio, in cui disse «È finito tutto!», stringendo le mani del giornalista che gli aveva posto la domanda. Di tale commento si pentì subito, come spiegò poco dopo alla cittadinanza durante i funerali di Paolo Borsellino e poi, successivamente, in un'intervista a Gianni Minà nel 1996 nel corso della trasmissione Storie (Rai 2):
«Era un momento particolare, di sgomento, di sconforto. Ero appena uscito dall'obitorio dove avevo baciato per l'ultima volta la fronte ancora annerita di Paolo. Quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di cedimento, forse non scusabile, ma comprensibile. In quel momento avrei dovuto – avevo l'obbligo, forse, e avrei dovuto sentirlo quest'obbligo – di raccogliere la fiaccola che era caduta dalle mani di Paolo e di dare coraggio, di infondere fiducia a tutti. E invece furono i giovani di Palermo a dare coraggio a me, che trovai dopo pochi minuti in piazza del tribunale. Mi si strinsero attorno con rabbia, con dolore, con determinazione, con fiducia, con speranza. E allora capii quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole e quanto bisognava che io operassi per farmele perdonare: operassi per continuare l'opera di Giovanni e Paolo.»